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TÂMIHSÙGH, BENEDIZIONE DRUIDICA

Un’antica benedizione celtica dell’isola di Iona, uno dei cuori dell’antica chiesa cristiana celtica,  chiamata Hy o Columkill (Colomba della Chiesa, isola di San Columba,) e dagli isolani Innis nan Druidhneah (l’isola dei Druidi), in quanto centro dell’antica religione druidica, si articola in cinque strofe, come segue:

A te la profonda pace

dello scorrere dell’onda.

A te la profonda pace

del flusso dell’aria.

A te la profonda pace

della terra silenziosa.

A te la profonda pace

delle stelle lucenti.

A te la profonda pace

del Figlio della pace…

L’antica benedizione, che sembrerebbe essere dedicata a chi ha lasciato questa terra, si conclude con un augurio, che è anche un viatico: Tâmhisùgh (purtroppo reso spesso con Tamisuq), il cui significato è: “Rimani nell’onda” o “Esisti nell’onda”.

Tàmh, infatti, significa stare, rimanere. La i significa in e sugh ha il significato di onda, movimento dell’onda.

La benedizione, nelle prime quattro strofe, pare essere antica ed evidentemente precristiana, mentre la quinta strofa, pare essere un’aggiunta successiva, ad opera di un copista cristiano. Del tutto antico è l’augurio finale, che indica il proseguire della vita nell’onda, ossia in una dimensione vibrazionale dell’universo diversa da quella di Abred, del Ciclo delle Migrazioni, che coincide con il mondo tridimensionale nel quale sono incarnate le anime: il nostro mondo.

Il concetto sotteso appare in linea con la tradizione druidica, in base alla quale le anime, dopo il loro transito in Abred, se hanno saputo, con la conoscenza e le azioni, superare la legge di necessità, possono accedere al Mondo Bianco (Gwynfydd), ossia ad una dimensione di felicità.

CERIDWEN E GWYDDION, LA ISIDE E L’OSIRIDE DEI DRUIDI

Ceridwen o Karidwen legata a Gwyon  o Gwyddon, il dio che ha insegnato agli uomini l’arte divina della poesia ed è dio dello spirito, riassume in sé Cibele, Diana, Proserpina, Minerva; è una sorta di Iside ed è assimilata a Cerere di Samotracia (equivalente a Demetra). [1] (Vedi in proposito l’articolo: “I misteri di Ceridwen” pubblicato su questo sito).

Un filo logico, storico e mitologico collega i riti della celtica dea Ceridwen e del dio Gwyddon con quelli greci di Demetra e Dioniso e, conseguentemente, con quelli egizi di Iside e Osiride.

Nel culto della Cerere di Samotracia, del quale testimonia Erodoto, gli dèi del santuario erano chiamati Cabiri o Kabeiroi.

Il culto è anteriore all’arrivo dei Greci nell’isola (VII sec. a.C.) e legato alla figura della Grande Madre: una donna seduta con un leone a fianco, il cui nome originario era Axieros: figura prossima alla Cibele frigia o alla Dea Madre troiana del monte Ida, dai Greci è stata assimilata a Demetra.

A Samotracia si veneravano anche Ecate, con il nome di Zezynthia e Afrodite Zerynthia.

Kadmilos, accompagnato dai Cabiri, era lo sposo della Grande Madre Axieros ed era un dio della fertilità, assimilato dai Greci a Hermes itifallico.

Divinità infere erano Axiokersos e Axiokersa, identificati in Ade e Persefone.

Paul Foucart[2] scrive di una connessione tra Grecia ed Egitto, per quanto riguarda le ritualità misteriche sin dalla XII dinastia. Connessioni intensificatesi al tempo della XVIII. Nel IV secolo a.C. era attivo al Pireo un tempio dedicato a Iside e Osiride. Paul Foucart, con il suo puntuale studio sulle corrispondenze greche ed egizie, giunge alla conclusione che Demetra e Dioniso sono le stesse divinità di Iside e Osiride. Le tombe di Iside e Osiride si trovano a Nysa, nella valle del Giordano e gli inni omerici affermano che Dioniso è nato a Nysa.

“Nei periodi più antichi – scrive Plutarco – Dioniso era adorato con Demetra”. [3]

Concludendo la sua analisi Foucard scrive: “Nello svolgere dal loro apparato mitologico le leggende che abbiamo esaminato e controllandole in base alle scoperte moderne, ci troviamo in presenza di un certo numero di fatti che hanno valore storico. A un’epoca contemporanea dei Faraoni della XXII dinastia [VIII sec. a.C.], dei coloni egizi si stabilirono nel golfo di Atene, a Eleusi, che era il punto di migliore approdo della costa e l’intersezione della strada della Grecia del Nord e del Peloponneso. Con essi portarono le colture della vigna e dei cereali, fino ad allora conosciute, e il culto di Iside e Osiride, ai quali essi attribuirono quelle due arti e che erano gli dèi nazionali dell’intero Egitto. Senza enfasi, così come senza resistenza, gli indigeni fecero buona accoglienza alla coppia divina che apportò loro tali benefici; essi adorarono Osiride e Iside con il nome di Dio e Dea e, più tardi, con quello di Dioniso e Demetra”. [4]

Anche la Thesmoforia, festa il cui oggetto era glorificare l’unione di Dioniso e Demetra e la fecondità della terra, secondo Erodoto, era di origine egiziana, poiché furono le figlie dei Danai che le fecero conoscere i Pelasgi.

[1] Vedi in proposito Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès.

[2] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès.

[3] Plutarco, Frammenti, citato in Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès

[4] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès

[5] Paul Foucart, Les Mystères d’Eléusis, Pardès

IL CULTO DI HU GADARN, IL MOSÉ DEI CIMMERI

Nella storia della cultura celtica e druidica medievale, dove evidentemente si trovano echi di antichi culti soggetti ad un’interpretazione cristiana, si ha notizia certa dell’esistenza del culto di Hu Gadarn, il quale, come ci ricorda Jean Reynaud[1], era un eroe evemerizzato della migrazione dei Kimris indoeuropei, una sorta di Mosè gaelico.

A lui nel XV secolo venivano rivolte preghiere come a un dio e da alcuni era assimilato a Esus o Hoesus, denominazione tarda e latina di un concetto gallico antico del divino, della quale opportunamente Jean Reynaud trova l’origine nel greco aei-isé: “Colui che è sempre simile a se stesso”.

Esus, citato da Lattanzio e da Lucano, era associato alla quercia e al vischio. Su un altare eretto a Parigi dai commercianti sotto il regno di Tiberio e ritrovato nel Settecento nel cuore della cattedrale di Notre Dame, da una parte c’è Juppiter e dall’altra Esus: un personaggio vestito con il saio gallico, coronato di quercia e armato di un coltello con il quale taglia quello che sembra essere vischio.

Il culto di Hu Gadarn ha avuto una notevole importanza nel Medioevo, tant’è che un bardo cristiano del XV secolo sosteneva esserci due movimenti attivi: uno quello di Cristo e l’altro quello di Hu.

Alcuni bardi identificavano addirittura Cristo con Hu.

I bardi del Medioevo si rivolgevano a Hu Gadarn con devozione: “Sostieni il suo coraggio nelle fatiche della battaglia”, dice il poema di Gadarn-Maelduw. “O Hu, con le ali aperte”, dice il canto di morte di Uther Pendragon. Nell’elegia di Aeddon, attribuita a Taliesin, Hu è onorato come guida delle anime.

Nel XIV secolo Iolo Goch scrive: “Hu Gadarn, il sovrano, il giusto protettore, il monarca, il distributore delle esistenze e della fama, il re della terra e del mare, la vita di tutto ciò che esiste nell’universo”.

Nel XV secolo Hu Gadarn è invocato da Rhys-Bruddyd come “il signore che regna su di noi, il Dio dei nostri misteri”.

Hu Gadarn, secondo Hersart de la Villemarqué era detto il Forte e non era altri che Esus, “il Marte dei Galli”. [2]

Hu Gadarn, secondo un’altra tradizione, era il dio che insegnò agli uomini a coltivare la terra ed era sorto dall’arco (in gaelico: bogha, bogha saighde, slatag): druida primordiale era associato a Bacco, ossia a Dioniso e, conseguentemente a Osiride.

Di grande interesse, questa tradizione in base alla quale Hu Gadarn sarebbe sorto dall’arco, in quanto ci rimanda ad un sostrato antico.

“Nei Veda – scrive Mario Polia – la Morte, intesa come oscura origine della Vita, per crearsi un corpo canta un inno di lode e questo inno è un canto a piena voce (ark) che si accompagna alla gioia (ka) e crea il Cosmo”. [3]

L’oscura origine è l’arché, la racchiusa, la tenebra e il canto è la sua parola, ossia il Logos, che è ark-ka (l’arca dell’alleanza, l’arc en ciel, il ponte). L’arco, l’arcobaleno, l’Arco reale, è la parola sapiente del dio. (vedi in proposito anche il mio: “Le radici scozzesi della Massoneria, Ilmiolibro.it).

“L’arco – sottolinea Polia – è la potenza raccolta e pronta a scagliarsi condensata sulla punta del dardo. E’ immagine di vita (in greco «vita» e «arco» si dicono allo stesso modo: bios) ed è fonte di morte che silenziosamente vola lontano”. [4] L’arco, aggiunge ancora Polia, “è la parola del sapiente e del dio (l’uno è nell’altro) che scocca e dà la vita e la morte”. [5]

Il culto di Hu Gadarn non ebbe consenso unanime, in quanto troppo contaminato dal cristianesimo.

Sion Cent (XV secolo), che non era cattolico, ma esponente del neo druidismo, (ha tentato la restaurazione del druidismo pagano organizzando conventi segreti, i Cyrail), redattore di un catechismo segreto che insegnava la trasmigrazione delle anime, condannò il movimento di Hu.

[1] Jean Reynaud, L’esprit de la Gaule, Firme, Paris, 1864

[2] Hersart de la Villemarqué, Les bardes bretons, Didier, Paris, 1860

[3] Vedi Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

[4] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

[5] Mario Polia, Le rune e i simboli, Il cerchio-Il corallo

LE ESPERIENZE TERRENE DELL’ANIMA IMMORTALE

Sul fatto che i Druidi insegnassero che l’anima è immortale, anzi, eterna, non ci sono discordanze tra gli studiosi.

Le testimonianze dei contemporanei sono tali da indurre a pensare che i Druidi non solo ritenessero l’anima immortale, ma anche trasmigrante da un corpo all’altro, nel corso di più vite in Abred, il Ciclo delle migrazioni, ossia il mondo terrestre.

Giulio Cesare (De Bello Gallico, VI – 13-34) sostiene che “il punto essenziale” della dottrina druidica “è l’immortalità dell’anima” e aggiunge che i Druidi “insegnano che dopo la morte essa passa in altri corpi”.

Pomponio Mela, Chorographia, III, 2, 18) scrive che “il solo dogma che essi [i Druidi] insegnavano pubblicamente è l’immortalità dell’anima e l’esistenza di un’altra vita”.

Giamblico (Vita di Pitagora, 30) afferma che i Galli sostengono che “l’anima di chi muore non è distrutta, ma che sussiste”.

Valerio Massimo (Detti e fatti memorabili, II, 6,10-11), scrive che i Galli sono persuasi che “le nostre anime sono immortali”.

Lucano (Guerra civile, I,453-465) scrive, rivolgendosi ai Druidi: “Secondo voi le anime dei morti non raggiungono le dimore silenziose dell’Erébe e il pallido regno di un Dio infero, uno stesso spirito dirige i nostri membri in un altro mondo: la morte, se ciò che voi dite è reale, è una parte di una lunga vita”.

Diodoro Siculo (Biblioteca storica, V, 28) scrive che presso i Galli “è prevalso il dogma di Pitagora secondo il quale è un fatto che le anime degli uomini sono immortali e che dopo un certo numero di anni alcuni ritornano in vita entrando in un altro corpo”.

Strabone (Geografia,IV,IV,4) scrive che “le anime sono imperiture, come il mondo, ma che un giorno lontano regneranno solo il fuoco e l’acqua”. Concetto che pari pari viene anche espresso da un anonimo del VII – VIII sec. in Chrestomaties (IV,14-16).

Il tema dell’immortalità dell’anima e delle sue peregrinazioni costituisce uno dei maggiori punti di contatto tra le dottrine orfiche e pitagoriche e le Triadi bardiche, anche se esistono sostanziali differenze tra quanto ci viene tramandato dalla tradizione druidica e quanto affermano il pitagorismo e l’orfismo.

Abred, infatti, non è un luogo di punizione o di caduta delle “gocce di luce” che emanano dal Divino, ma è il cerchio delle trasmigrazioni, delle esperienze dell’essere, dell’incontro con la legge di necessità e con il male inteso come condizionamento degli schemi della mente e al contempo della possibilità della liberazione, con la trasgressione alla legge di necessità. Abred è il cerchio delle molteplici esperienze dei vari stati dell’essere nella materia, così come sono mirabilmente descritti nelle poesie di Taliesin e di Amergin.

Abred è la grande scuola di vita e della trasformazione, dell’apprendimento diretto esperienziale della molteplicità, nella quale l’Essere si determina e della ciclicità della vita stessa.

I punti di contatto con la filosofia pitagorica e con l’orfismo, tuttavia, non mancano.

Erwin Rohde (Psiche o Il culto dell’anima presso i Greci e la loro credenza nell’immortalità), citato da Bertholet, scrive in proposito: “L’uomo deve, secondo la dottrina orfica, liberarsi dei legami del corpo nei quali l’anima è chiusa come un prigioniero nella sua prigione. Ma essa deve percorrere un lungo cammino prima di arrivare alla liberazione. Non ha il diritto di sciogliere lei stessa i suoi legami con la violenza (suicidio) e la morte naturale la libera solo per poco tempo. Perché l’anima si vede, suo malgrado,  chiusa in un nuovo corpo. Mentre, uscita da quello che ha appena lasciato, volteggia liberamente nei venti, è aspirata da un altro essere, e così, sballottata tra una vita libera e senza legami e delle incarnazioni sempre nuove, essa percorre il vasto “cerchio delle necessità” condividendo la vita di molti uomini e animali”. [1]

[1] Eduard Bertoleth, La reincarnazione nel mondo antico, Edizioni Mediterranee

DRUIDISMO TRADIZIONE E FUTURO

I druidi, come scrive Peter Berresford Ellis, hanno “esercitato l’influenza spirituale più illuminata e civilizzatrice di tutta l’Europa preistorica”[1] e, come sostengono due dei maggiori studiosi della civiltà celtica, Françoise Le Roux e Christian J. Guyonvarc’h, “sono stati detentori dell’unica forma di tradizione che l’Occidente abbia mai conosciuto…”.[2]

René Guénon, uno dei maggiori studiosi della tradizione iniziatica, quando affronta la questione essenziale del “punto di congiunzione” tra la Tradizione primordiale o polare e quella atlantica, afferma di aver pensato al Druidismo.

“E’ fuor di dubbio – scrive Guénon – che se si vuole indagare sulle condizioni nelle quali tale congiungimento si operò, bisogna dare una particolare importanza alla tradizione celtica e a quella caldea”[3] e si pone l’interrogativo di chi al giorno d’oggi sappia quali furono queste tradizioni.

“Quanto al problema delle priorità – scrive ancora Guénon – bisognerebbe sapere innanzitutto a che epoca precisa risale il Druidismo, ed è probabile che esso abbia origini molto più lontane, nel tempo, di quanto non si creda comunemente, tanto più che i druidi erano custodi di una tradizione di cui una parte notevole era incontestabilmente di provenienza iperborea”. [4]

In un’epoca nella quale si cercano le radici d’Europa per ragioni identitarie, il Druidismo va considerato in tutta la sua valenza e in tutta la sua potenza, essendo tra le radici quella più antica, più profonda e, nonostante le ingiurie del tempo e degli uomini, più vitale.

La Gran Loggia Druidica d’Italia si pone come obbiettivo centrale del suo operare il recupero filologicamente corretto della tradizione del Druidismo, per farne  l’humus nel quale far crescere, con i semi antichi, il grande bosco di un futuro condiviso.

Il Druidismo non è una religione nell’accezione comune del termine di credenza, timore e adorazione del divino e culto. Il Druidismo può essere considerato una religione quando il vocabolo religione viene fatto discendere dalla particella re, che accenna a frequenza, e dal verbo legere, che equivale a scegliere e, in senso figurato, a cercareguardare con scrupolosa cura. Guardare con scrupolosa cura e scegliere sono due concetti che ben si coniugano con la conoscenza e con la libertà. In questo senso, e solo in questo, il Druidismo è una religione: la religione della conoscenza e della libertà.

Il Druidismo è una via filosofica fondata sulla libertà come valore essenziale; è una via spirituale e conseguentemente libera per accedere alla Conoscenza.

Nel Druidismo non ci sono dogmi e verità rivelate; c’è la ricerca in merito alle leggi della Natura, ai comportamenti degli uomini, alla Sapienza del Divino.

Per questo motivo, in questo tempo in cui le religioni dogmatiche monoteiste mostrano tutti i loro limiti e svelano la loro essenziale ed originaria vocazione al potere e al dominio; in questo tempo che assiste alla caduta delle ideologie che hanno connotato il Novecento del secondo millennio, il Druidismo, che basa la sua essenza e la sua esistenza sulla libertà, è una filosofia di vita attuale e idonea ad accompagnare l’essere umano sulla via che lo porta a conoscere se stesso e, conseguentemente, il significato del proprio vivere e del proprio agire.

Dal deposito sapienziale antico il moderno Druidismo, senza scostarsi dai principi fondamentali, può distillare ciò che di essenziale la tradizione ci tramanda e da questo distillato può trarre indicazioni  valide per il cammino attuale dell’essere umano.

I Druidi ci hanno lasciato numerose testimonianze del loro pensiero.

Del Druidismo di epoca celtica, conosciamo numerose testimonianze dei contemporanei: greci e latini, che ci danno utili indicazioni.

Nelle culture antiche era consuetudine usare un linguaggio simbolico, a volte enigmatico, giocato sull’analogia, l’omofonia, la sovrapposizione dei significati. Non solo. Miti, leggende, fiabe, portano con sé nei secoli nuclei di conoscenza che possono essere distillati e riportati in evidenza.

La stessa tradizione orale, anche se codificata nella scrittura in tempi più recenti, ha mantenuto inalterate nei secoli, come è stato chiarito da molti studiosi, le narrazioni. Questo fatto consente, con le dovute cautele, di poter dare ai resoconti scritti della tradizione orale una datazione ben più antica di quella della loro stesura.

Esistono, infine, numerosi reperti archeologici ed archeo astronomici dai quali è possibile trarre utili indicazioni.

Da queste necessariamente brevi considerazioni consegue la possibilità di fare come il salmone, ovvero di risalire la corrente, usando gli ostacoli come opportunità, per arrivare alla fonte.

Un’ultima considerazione va fatta in merito ai linguaggi enigmatici degli antichi, che una malintesa interpretazione vorrebbe adottati per occultare conoscenze riservate a pochi. La trasmissione di una conoscenza con il linguaggio logico sequenziale, al quale siamo abituati, necessariamente la contestualizza e la data, incardinandola nella forma mentis del tempo.

Il linguaggio enigmatico, simbolico, archetipico per sua natura va interpretato, ovvero contiene un nucleo essenziale di conoscenza che deve essere decodificato. Chi decodifica lo fa con gli strumenti del suo tempo e, conseguentemente, resuscita e attualizza quell’antico nucleo di conoscenza rendendolo idoneo, efficiente ed efficace nell’attualità.

Distillare simboli, archetipi, enigmi della tradizione druidica, evidenziandone il nucleo essenziale, svolgere il codice attualizzandolo è un’opportunità che la Gran Loggia Druidica d’Italia intende cogliere ed è un lavoro che intende intraprendere.

Il Druidismo rivive, attraverso di noi, non nelle folcloristiche concessioni a divertenti rievocazioni dei tempi passati, ma nell’essenza dei suoi insegnamenti.

Gli antichi Druidi agivano e applicavano la loro conoscenza in una società clanica e tribale e in contesti tecnologici ed economici specifici, non riproducibili se non in rievocazioni storiche che, se filologicamente corrette, appartengono al folclore e che in questo ambito vanno collocate.

I moderni Druidi svolgono la loro azione nel contesto della cultura del terzo millennio ed è in questa che devono aprire le “capsule del tempo” della conoscenza antica, perché queste, come semi a lungo ben conservati, possano dare nuova testimonianza di vita e nuovi frutti.

Un’abbondante quantità di testimonianze riguarda il Druidismo del periodo celtico, del quale le linee di fondo, riguardanti l’origine, la vita, il destino degli esseri umani e il rapporto tra il mondo terreno e l’Aldilà è scritto in quelle Triadi bardiche, non contaminate dalla teologia e dalla morale cristiane, che rivelano un influsso evidente della filosofia greca, in particolare orfico-pitagorica.

Interessante, a questo proposito, il rapporto con Apollo. “I bardi, secondo Ecateo [250 a.C.] citato da Diodoro Siculo – scrive Hersart de Villemarqué – erano una casta di sacerdoti del sole, «le cui funzioni erano ereditarie e consistevano nel cantare sulle arpe le azioni gloriose del dio, nel custodire il suo tempio e dare leggi a una città vicina al tempio». [5] Le tracce di Apollo conducono alla terra degli Iperborei.

Il rapporto dei Greci “con Apollo iperboreo – scrive in proposito Giulio Guidorizzi – parla inequivocabilmente di rapporti con le culture del Nord Europa, ma il quadro resta piuttosto oscuro…”.[6]  “Secondo Diodoro Siculo, storico greco del I secolo a. C. Ecateo avrebbe collocato il paese degli Iperborei al di là delle terre abitate dai Celti, in un’isola oceanica grande quanto la Sicilia. Un santuario monumentale di forma circolare vi sarebbe dedicato ad Apollo, il dio maggiormente venerato e vi si svolgerebbero grandi feste ogni 19 anni all’equinozio di primavera, periodo ciclico alla fine del quale si può stabilire la concordanza fra anno lunare e anno solare. E’ possibile che tali dati sui leggendari Iperborei, apparentemente inediti, fossero la lontana eco di informazioni sulla situazione della Britannia, sulle preoccupazioni astronomiche e calendariali delle popolazioni locali che portarono all’erezione di monumenti ciclopici, come il cerchio megalitico di Stonehenge”.[7]

Il riferimento a Stonehenge, tuttavia, riporta la nostra attenzione alla civiltà megalitica e a quel periodo, risalente all’incirca al 3 mila a.C. nel quale i culti solari si sostituirono ai culti stellari, come indicano gli orientamenti di molti siti.

Handigham cita in proposito la teoria di Norman Lokyer, secondo la quale esisteva nel 2002 a.C. un “culto di maggio”, legato al 1º maggio, quindi ad Aldebaran, soppresso intorno al 1600 a.C. da adoratori del solstizio, quindi del sole, provenienti dall’Egitto o dalla Grecia. Il “culto di maggio” venerava il sorbo e il pruno, mentre gli adoratori del sole il vischio. Il culto di maggio diede origine ad un calendario con l’anno diviso in otto parti: solstizi, equinozi, 1º maggio, 1º novembre, 1º febbraio, 1º agosto. [8]

Se del Druidismo del periodo celtico abbiamo numerose testimonianze, più complesso è rintracciare le tradizioni druidiche relative ai periodi storici antecedenti, in quanto gran parte delle sopravvivenze sono di tipo leggendario e mitologico.

Tuttavia, gli studi sulla Dea Madre del Neolitico consentono di rintracciare molti elementi interessanti. Gli stessi riti di Ceridwen, simili a quelli di Samotracia e a quelli Eleusini, ci conducono alla tradizione isiaca e alle sue ritualità.

Per gli studi rivolti al Druidismo preceltico, la civiltà megalitica è un punto di riferimento essenziale

Su “Le Scienze”[9] Elisabeth Hamel, Peter Foster e Theo Vennemann scrivono: “Ricerche di genetica molecolare indicano che la maggior parte degli odierni europei ha antenati che vivevano in Europa già nell’epoca glaciale. E che, analogamente a quanto suggerito dagli studi linguistici, il ripopolamento d’Europa occidentale dopo la glaciazione ebbe prevalentemente origine dal “rifugio” nel nord della penisola iberica e nel sud della Francia”.

Dai molti studi sull’argomento, la civiltà megalitica, anteriore a quella sumerica, possedeva un sistema di scrittura, un sistema di misurazione che univa lo spazio e il tempo e conoscenze tecnologiche sofisticate, come del resto dimostrano i reperti archeologici (dolmen, cromlech, menhir) e le vie dei paralleli, lungo le quali gli antichi abitanti d’Europa si sono spostati da Occidente ad Oriente, ossia dal mare alla terra, lasciando lungo queste vie testimonianze di pietra che hanno riferimento alle costellazioni, all’osservazione del movimento degli astri, del sole, della luna e alla forze della terra: faglie, fiumi sotterranei, energie del territorio.

L’astrofisico Vittorio Castellani, che ha approfonditamente studiato l’evoluzione geologica dell’Europa occidentale, in merito alla civiltà megalitica, trae la conclusione che in essa sia confluita una tradizione risalente al nono millennio e riporta, in un suo testo sull’argomento[10] l’opinione di W.Muller, secondo il quale, attorno al 5.000 a.C. “appare con sorprendente rapidità in tutta l’Europa atlantica una umanità che conosce l’agricoltura, la ceramica, la pulitura della pietra e l’architettura, che sa smuovere grandi blocchi e prende nome proprio da tale tecnica di costruzione. Pare come se un’ondata di genti, proveniente dal mare, avesse inondato i bordi oceanici del mondo culturale europeo. E poiché non è possibile che i megalitici siano sorti dal fondo dell’oceano Atlantico, rimane per il momento senza risposta il problema della loro origine”.[11]

Emerge dalle nebbie della storia una civiltà megalitica vasta, complessa, sulla quale con ondate di migrazioni successive si sono sovrapposte popolazioni indoeuropee provenienti dall’Est. Una civiltà che ha come ultime testimonianze linguistiche il basco e che è riconoscibile geneticamente nella predominanza del fattore Rh negativo.

L’antropologa Marija Gimbutas la chiama la “Vecchia Europa”. I suoi abitanti erano principalmente agricoltori e cacciatori. In questa “Vecchia Europa” non esistevano classi sociali, figure rigide di capi e macroscopiche divisioni di ruoli tra i due sessi. Si costruivano templi dedicati a divinità femminili e su tutto vegliava il mito di una Grande Madre, raffigurata come dea uccello, dea serpente e dea della fertilità.

Siamo, dunque, in presenza di una società matriarcale, sulla quale gli indoeuropei, pastori-guerrieri si sovrapposero e al posto della Dea Madre, legata alla terra, alla rigenerazione e alla rinascita, misero divinità maschili: dei della guerra e della forza, impositivi, punitivi.

La cultura basca è, per la ricostruzione del Druidismo, un importante punto di riferimento in quanto è dall’enclave basca che l’Europa è stata ripopolata all’indomani dell’ultima glaciazione.

Il genio femminile dei Baschi è Mari, anche se la forma più antica è androginica. La Dea è considerata come la regina di tutti i geni che popolano il mondo.

Mari  è “La Signora” o “La Dama”, Dea che vive nelle regioni abissali.  Un altro dei suoi nomi è Maya e il nome Mari, come suggerisce Barandarian, ha relazioni anche con Mairi, Maide e Maindi. [12]

Le sue forme sono diverse: nelle regioni sotterranee ha aspetto serpentiforme; in superficie appare come una donna bellissima, elegantemente vestita, in atto di pettinarsi con un pettine d’oro[13] (la ritroveremo nelle leggende melusiniche del XII secolo); ha le caratteristiche (piedi d’uccello, corpo di serpente) della Dea Madre del Neolitico.

Mari è sposa di Maju, o Sugaar,  che appare come un serpente (il serpente di fuoco, la lava che sgorga dalle viscere della terra).

Nel XII secolo la ritroveremo nelle leggende melusiniche nate alla corte di Enrico II Plantageneto. Melusina è Lugine (oca bianca), la paredra di Lug (corvo nero), diventata Lusine, la vecchia Madre Lusine, passata nei racconti popolari come Mé-Lusine. Lusine è per Lug l’equivalente di Belisama per Belenus: Lug è aria e fuoco e Lusine è terra e acqua, i quattro elementi della manifestazione.

Melusina è serpens e draco (due termini che appartengono alla stessa area semantica) ed è una banshee, una dama bianca. In quanto serpens e draco è wouivre (calore, ardore, dalla radice *gwer). A Melusina sono collegate le aguane, un esempio significativo dell’influenza della civiltà basca sulla realtà celtica[14]

Importante elemento da considerare nella progressiva strutturazione del Druidismo è il sostrato animistico e sciamanico, che con le sue implicazioni magiche, accomuna i popoli del nord a quelli di cultura celtica.

I popoli kurganici (indoeuropei) provenienti dalle steppe russe hanno portato con sé la cultura sciamanica altaica. Lo sciamanesimo ha avuto nel tempo conferme negli apporti delle culture norrene alla coscienza collettiva delle popolazioni celtiche: un recupero avvenuto, in particolare, attraverso il passaggio a nord delle concezioni religiose indoeuropee, che si incontrano con quelle dei Celti tra il 500 a.C e la nascita di Cristo, reintroducendo miti, riti, divinità e concezioni della vita e del mondo che hanno mantenuto, nei secoli, un’adesione pressoché incontaminata con le idee originarie. I Germani settentrionali, infatti, come scrive Gianna Chiesa Isnardi[15] , insediatisi in Danimarca e nella penisola scandinava sono stati toccati solo marginalmente dalle altre culture e anche il cristianesimo si è affermato in quelle regioni solo dopo l’anno Mille. Non solo, “l’onda lunga del paganesimo nordico si protrasse addirittura oltre la riforma protestante”.[16]

Del rapporto tra druidi del periodo celtico e il mondo greco è testimonianza la similitudine dei riti di Ceridwen con quelli di Samotracia e di Eleusi.

Jean Raimond ricorda come i Misteri di Ceridwen, segnalati da Artemidoro, siano simili a quelli di Cerere, i quali, trasformati dal bardismo, “conservano ancora i loro fedeli nel periodo di Taliesin (VI secolo d.C). “Il re, esso stesso, come si vede nei canti di Hoël o Hywell, re del Galles, morto nel 1171, era onorato di esservi ammesso. Esiste una sua preghiera curiosa, nella quale, ammesso già ai gradi inferiori dell’iniziazione, sollecita il collegio di Ceridwen con espressioni di fervente pietà, il favore dell’iniziazione superiore”. [17]

Hersart del Villemarqué sostiene essere i riti di Samotracia quelli che hanno un maggiore rapporto con quelli bardici e con i misteri ai quali gli orfici e i pitagorici amavano esser iniziati e riferisce della somiglianza delle gare di poesia bardica con quelle delle feste dionisiache, dove si incoronava il più bell’inno a Bacco e sottolinea come la cerimonia di intronizzazione del capo bardo, vincitore della gara di poesia che si teneva ogni tre anni tra i bardi bretoni, fosse simile a quella dei giochi relativi ai riti di Samotracia. “Ora – scrive Hersart de Villemaqué – se si osserva che la Samotracia era il santuario di queste iniziazioni, e che il culto cabirico, religione di Samotracia, si è diffuso nei paesi celti e particolarmente nelle isole britanniche, ove i Greci l’hanno positivamente riconosciuto, secondo le testimonianze formali di Diodoro Siculo e di Strabone; se si ricorda inoltre, che i Pitagorici passano per essere gli istitutori dei bardi e dei druidi celti, può essere, si penserà, che i giochi poetici dei bardi bretoni del VI secolo fossero l’ombra di certe iniziazioni religiose d’altri tempi”. [18]

In ambito celtico il Rito di Karidwen (Ceridwen) fa del nano Gwyon Bach il Grande Iniziato Taliesin, “fronte luminosa”, bardo primordiale.

Karidwen è la Minerva gallica, è colei che dà la sapienza e che riassume in sé anche Cibele, Diana e Proserpina e può essere considerata come simile a Iside; è, in buona sostanza, la Dèa Madre ed è legata a Gwyon (Gwyddyon o Gwyddon), il dio dello Spirito che ha insegnato agli uomini l’arte divina della poesia.

Karidwen, come Demetra e come Iside, è la grande iniziatrice.

Potremmo proseguire con altri esempi, ma per ogni approfondimento rinvio alla vasta letteratura in materia.

Quel che qui preme affermare, come un dato di fatto evidente e incontestabile, è che il Druidismo del periodo celtico ha condiviso in gran parte il pensiero greco ad esso coevo essendo il rapporto tra druidi e sapienti greci costante, intenso, fecondo di reciproche contaminazioni.

Numerose sono anche le testimonianze di sopravvivenze del Druidismo nella cultura medievale e di grande interesse è anche quanto riguarda l’esperienza del neo-druidismo, iniziata nel XVII secolo sulla base di una continuità tradizionale le cui tracce sono una parte significativa ed essenziale da ricercare e riscontrare.

Infine, ma non per minore importanza, la presenza in Italia del Druidismo.

La Gran Loggia Druidica d’Italia, come è scritto con tutta evidenza nel suo nome, si propone, come è stato fatto da altre istituzioni simili in altri paesi europei, di ricercare e valorizzare il Druidismo italiano che, sia pure assai poco indagato e, conseguentemente, poco conosciuto, ha una propria presenza riscontrabile nelle sopravvivenze mitologiche, leggendarie, archeologiche e anche in testimonianze storiche di grande rilevanza.

In particolare l’Italia è stata testimone del Druidismo celtico, essendo la sede di una delle culture celtiche storiche più importanti: la Cultura di Golasecca ed essendo stata la sede di migrazioni di popolazioni celtiche nel IV secolo a.C. che hanno dato vita ad insediamenti quali quelli dei Tauri, degli Insubri, dei Cenomani, dei Boi, dei Galli Senoni ed altri. L’Italia è stata sede della civiltà gallo-romana, che ha dato di sé esempi preclari.

L’Italia è la sede dell’incontro tra il mondo celtico, quello ligure e quello etrusco, con il quale i rapporti dei celti sono stati intensi e continuativi nel tempo.

La Gran Loggia Druidica d’Italia pertanto, oltre a riproporre il distillato della tradizione druidica europea, ha come intento specifico quello di recuperare il portato della tradizione italica.

Infine. Non è estranea alla Gran Loggia Druidica d’Italia la cura dello studio dei costumi e del folklore delle varie epoche che hanno interessato il Druidismo, in uno sforzo filologico che escluda improvvisazioni fantasiose.

[1] Peter Berresford Ellis, Il segreto dei Druidi – Piemme

[2] F. Le Roux – C.J. Guyonvarc’h, I Druidi, Ecig

[3] René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, Ed. Mediterranee

[4] René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, Ed. Mediterranee

[5] Hersart de Villemarqué, Les bardes bretones, Didier, Paris, 1860

[6] Giulio Guidorizzi,

[7] Venceslav Kruta, La grande satoria dei Celti,. Newton Compton

[8] Handigham, I misteri dell’antica Britannia, Newton Compton

[9] Numero 407, Lughhlio 2002

[10] Vittorio Castellani – Quando il mare sommerse l’Europa – Dal mistero dei Druidi ad Atlantide – Ananke – Torino – 1999.

[11] Vittorio Castellani, op. cit.

[12] José Miguel de Barandarian, Mitología vasca, Txertoa

[13] E’ interessante notare, a questo proposito, come la Dea madre degli Sciti abia coda di serpente. Vedi: Pietro Citati, La luce della notte, Mondadori

[14] Aguane, Aganis, Aguane, Naquane, Aganes, Vivane, Gaunes, Ghiane, Anghiane, Gane, Sagane, Arvane, ecc.

[15] Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi

[16] Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi

[17] Jean Raimond,  L’ésprite de la Gaule, Firne, Paris, 1864

[18] Hersart de Villemarqué, Les bardes bretones, Didier, Paris, 1860

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L’AREA SACRA GALLO ROMANA DI SANT’EUFEMIA

S.Eufemia, frazione del Comune di Brescia, posta ai piedi delle colline a est del centro cittadino, fu in epoca gallo-romana luogo sacro tra i più importanti dell’area cisalpina.

Dei ritrovamenti relativi all’area sacra gallo-romana in S.Eufemia si trova riscontro nel saggio di Lazzaro Giacomelli: “Alcune lapidi bresciane dell’età romana”, pubblicato dai Commentari dell’Ateneo di Brescia.

Giacomelli ricorda come alla fine di marzo del 1945, nel campo di proprietà del signor Battista Gasperini, a est del borgo, fossero eseguiti dei lavori di scavo per ricavare trincee militari e come dal terreno smosso fossero usciti un’ara votiva in marmo di Botticino, dedicata nel secondo secolo a Mercurio (Mercurio Votum Solvit Libens Merito), un’altra ara simile, sempre dedicata a Mercurio (Mercurio Caius Ingenus Sabellus Voltum Solvit Libens Merito), muri di fondazione e tracce di una strada, sempre di età romana.[1]1

Il borgo di S.Eufemia della Fonte, come ricorda Lazzaro Giacomelli nel saggio citato, “era già noto, oltre che per parecchie lapidi sepolcrali, anche per nove iscrizioni votive al dio Mercurio”.

Giancarlo Piovanelli, in proposito, ricorda: “Nel luogo prima sacro a Mercurio, come dimostrerà Domenico Vantini nel 1808, esisteva già una piccola chiesa dedicata, a partire dall’anno 761, a S.Eufemia, ….”,  probabilmente con un piccolo cenobio che il vescovo Benedetto aveva dato in custodia al chierico Pietro.[2]2

L’insieme dei ritrovamenti consente di affermare che ad oriente di S.Eufemia esisteva un’area sacra, dedicata a Mercurio, di una certa dimensione, visto che si estendeva ad occidente del campo Gasperini e a nord e sud del Naviglio.

Il Giacomelli ipotizza una zona di “forma pressappoco rettangolare”, di circa 250 metri di lato est-ovest e di circa 200 metri di lato nord-sud, con una superficie di circa 50 mila metri quadrati, “posta a cavaliere della strada regia e del Naviglio”.

Attorno al muro di fondazione rinvenuto nel 1945 pare esistesse un tempietto. La prova dell’esistenza di un altro tempietto la si riscontra nell’epistilio marmoreo rinvenuto nei pressi della Cascina Pedercini, dove sono venuti alla luce anche avanzi di un’edicola a pianta circolare di 8,50 metri di diametro.

Sin qui la parte più propriamente archeologica.

Vediamo ora chi era Mercurio per i Celti e per i Romani che popolavano l’antica e che cosa rappresentava per loro l’area sacra di S.Eufemia.

Lo studioso bresciano Leonardo Urbinati, nel suo saggio: “I culti pagani di Brescia romana”,  edito dai Commentari dell’Ateneo, sulla base dell’analisi dei ritrovamenti archeologici e delle isoglosse religiose scrive: “Con le sue 106 epigrafi, Mercurio occupa tra le divinità della Gallia Cisalpina il secondo posto, dopo Giove con 195; le stesse posizioni si mantengono sul Territorio Bresciano, ma la differenza diventa quasi insignificante: 34 dediche per Giove e 33 per Mercurio. Tuttavia se si considera isolatamente la Sezione del volume V del CIL (il catalogo italiano delle lapidi, ndr) comprendente la città di Brescia, che è il maggior centro di culto per il sommo dio celtico in tutta la Cisalpina, vediamo Mercurio conquistare, con notevole vantaggio, la supremazia numerica”.

Segno questo, dice Urbinati, del “perdurare nella sana e giovane popolazione Cisalpina, e a Brixia in particolare, di quello che potremmo chiamare un vero e proprio spirito celtico“, inteso come “sostrato di costumi, di tradizioni, di usanze, di modi di agire, che forma, per così dire, la trama del tessuto che vediamo riaffiorare ad ogni momento sotto l’ordito degli elementi latini”.

Dei Celti Cesare, descrivendo i loro costumi, diceva: “Tra gli dei onorano in primo luogo Mercurio … “.

Seguiamo ancora Urbinati, il quale, a proposito, sostiene che sotto il nome di Mercurio gli antichi Bresciani onoravano il dio gallico protettore delle invenzioni, delle mercature, dei guadagni e guida dei viandanti, ossia Mercurio-Lug.

“Naturalmente Mercurio è Lug”, scrive Margarete Riemschneider, studiosa tedesca della civiltà celtica, nel suo “La religione dei Celti”.[3]3

Françoise Le Roux e Christian J. Guyonvarc’h, due fra i più importanti studiosi della civiltà celtica, la prima specialista di storia delle religioni e il secondo professore di celtico all’Università di Rennes, fanno anch’essi corrispondere Mercurio a Lug, il dio luminoso che, seduto con le gambe incrociate, gioca con la scacchiera. Lug è anche l’equivalente del Cernunno camuno: il dio cervo.

Lug, Lugus nella scrittura latina, detto in gaelico Samildanach, il Politecnico, è al di fuori di tutte le classi e al di sopra del panteon, anzi: Lug è tutti gli dei[4]4.

L’area sacra di S.Eufemia, dunque, si propone come un importante centro spirituale celtico della Gallia Cisalpina, dedicato a Mercurio-Lug e quindi a tutti gli dei o meglio, all’unico dio che è sopra tutti gli dei ed è tutti gli dei.

[1] Le due are sono conservate nel Museo Romano di Brescia

[2] Nota 15, pag 17 del testo: “Il monastero benedettino e la parrocchia di S.Eufemia della Fonte dalle origini ad oggi”, Brescia, 1995 – Ed. Parrocchia di S.Eufemia della Fonte.

[3] Margarete Riemschneider – la religione dei Celti – Società editrice Il Falco – Milano – 1979

[4] Françoise Le Roux-Christian J. Guyonvarc’h – “La civilisation celtique” – Éditions Ouest France Univerité – 1990 –

A BRESCIA C’È BERGIMO

Bergimo 1

In un ambiente di servizio del Tempio Capitolino, al di sotto di palazzo Pallaveri, durante gli scavi effettuati tra il 1992 e il 1998 sono stati rinvenuti, tra gli altri numerosi reperti, frammenti appartenenti ad un’unica coppa con orlo leggermente ingrossato con l’effigie di Bergimo (l’unica finora esistente).

Bergimo è il dio celtico delle alture e delle montagne.

Sui frammenti, studiati da Elisabetta Roffia, funzionario della Soprintendenza archeologica della Lombardia, è incisa, come riporta il Giornale di Brescia, in data 29 maggio 2003 (pagina 27), “la porzione superiore di una figura maschile nuda, in posizione frontale, ottenuta attraverso piccoli punti ravvicinati che danno l’effetto di una linea continua. L’uomo raffigurato presenta sul capo due elementi ricurvi, interpretabili probabilmente come una falce di luna e indossa una collana con pendaglietti. Il volto è caratterizzato da grandi occhi ovali dall’iride nettamente incisa, sormontati dalle lunghe sopracciglia che formano una linea continua con il profilo del naso. La piccola bocca è resa con due linee parallele chiuse alle estremità da due puntini sovrapposti. I capelli scendono ai lati del viso fino all’attaccatura del collo; sopra la spalla sinistra sono visibili le estremità superiori di due frecce terminanti con ampie punte triangolari. A sinistra della figura è incisa un’iscrizione in chiare lettere capitali, incompleta ma integrabile con sicurezza: vi si legge Bergim(us)”.

Bergimo, come viene precisato nell’articolo citato a firma dei Civici Musei di Brescia, “era una divinità preromana, probabilmente cenomane, comune a Brescia e a Bergamo benché, sino ad oggi, attestata solo da tre iscrizioni tutte provenienti dal territorio bresciano e datate tra la fme del I secolo a.C. e il II d.C.: due sono conservate al Museo Maffeiano di Verona, una presso i Civici Musei di Brescia. Il culto di questa divinità doveva essere di carattere popolare, particolarmente diffuso ed importante”.

“La tipologia della coppa, la tecnica e lo schema decorativo – fa notare l’articolo a cura dei Civici Musei – riconducono il manufatto ai primi decenni del III secolo d.C., nell’ambito di ma produzione che doveva avere come centro la città di Colonia, in Germania. Questa collocazione cronologica testimonia inoltre la continuità del culto di Bergimus nel territorio bresciano fino al III secolo d. C., oltre i termini cronologici precedentemente attestati dalle epigrafi note”.

A CASNIGO C’È LA STREGA DELLA RÌA DA PÌ

A Casnigo, in  Val Seriana, provincia di Bergamo, Salendo lungo quella che attualmente si chiama Rìa da Pì, si incontra una fonte che dà origine ad un lago sotterraneo (in grotta). Alla fonte è legata una leggenda che la vuole abitata da una strega che porta i bambini. Abbiamo qui una prima interessante connessione tra una “strega”, ovvero tra un’antica divinità correlata ad una fonte e ad una grotta (tutti simboli della Dèa Madre) e la nascita (il parto e conseguentemente l’allattamento).

La fonte viene anche indicata come Fritella o Fritilla, un vocabolo che indica offerta. Anticamente le offerte erano di solito connesse con le fonti sacre.

Scrive Riccardo Taraglio: “La Brighit celtica è dea del fuoco, del sole, della luna, della filiazione degli animali,  dell’arte dei fabbri, della fertilità e della nascita (e quindi dell’ostetricia e delle levatrici), della famiglia, del focolare (patrona delle abilità domestiche), della filatura e della tessitura, della musica e della poesia, della guerra, della medicina, della divinazione. Veniva invocata dalle donne sia per chiedere una gravidanza, cantando delle invocazioni sulle acque di una sorgente sacra o gettandovi delle offerte, sia durante il parto per facilitarlo e portarlo a buon fine”.[1]

Un riferimento interessante lo troviamo anche in relazione a Diana, invocata nel Tempio dell’Aventino come Lucina, protettrice dei parti, alla quale era dedicato il giorno 13 di agosto. Ritroviamo anche in questo caso il motivo della maternità connesso con la strega della Rìa de Pì.

Diana aveva tra le altre funzioni quella di tutelare le nascite, era regina delle selve ed era raffigurata con un ramo fronzuto in una mano e una coppa piena di frutta o piegata verso un altare da cui spuntava un cervo. Il 13 di agosto, fa notare ancora Graves,  festa precristiana della Dea Madre Diana, ovvero Vesta, era celebrata con libagioni di sidro, un capretto arrosto infilzato sui rami di nocciolo e mele appese a grappoli a un ramo.

Abbiamo Diana Nemorensis (del bosco) e, in Gallia, Diana Nemetona (nemeton, bosco sacro). [2]  Le statue la raffigurano con in mano un ramo di  melo.

La strega della Rìa da Pì è dunque Diana o la celtica Brighit.?

[1] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario

[2] R. Graves, La Dèa bianca, Adelphi

PETA, LUOGO SACRO DI CASNIGO

Il luogo, denominato Petta, nel comune di Casnigo, in Valle Seriana, provincia di Bergamo, si presenta, ad una prima osservazione, di interesse archeologico per la presenza di un altare Neolitico censito dall’archeologa Raffaella Poggiani Keller, per la presenza, sulla sommità del colle omonimo, dei resti di un possibile castelliere e per evidenze litiche, che ne indicano il possibile uso  antico come luogo di culto e di osservazione astronomica. Nella Carta archeologica della Lombardia (provincia di Bergamo, pagina 59), in relazione a  Monte Petta o Bracc, Raffaella Poggiani Keller scrive: “Un insediamento pre-protostorico, indicato da frammenti ceramici rinvenuti in superficie, è stato individuato nel 1984 in località Petta o Bracc, un cucuzzolo isolato dominante la sponda idrografica sinistra del fiume Serio, a quota 684 m.s.l.m. L’insediamento comportò un adattamento della sommità del rilievo che fu spianato artificialmente e arginato con muri a secco e terrazzamento. L’epoca di frequentazione potrebbe risalire, con molte incertezze, all’età del Bronzo. Nella località si osservano, inoltre, incisioni rupestri  di epoca storica su blocchi utilizzati in costruzioni agricole” (Relazione di Raffaella Poggiani Keller, 1984).

La sommità del colle 684 metri s.l.m.) è allineata alla chiesa della Trinità di Casnigo (689 m.s.l.m.) e al santuario di San Patrizio  di Colzate (674 m.s.l.m.).

Riguardo al toponimo, possiamo per ora ipotizzare due derivazioni.  La prima riguarda la radice *pete- che indica sia direzione di marcia verso un luogo o persona, sia movimento nell’aria, come volare o cadere. Latino petitio, dal verbo petere – Greco píptein (cadere), péptomai (io volo) Sanscrito patami (io volo, io cado)

Peta era la divinità romana alla quale era chiesto il modo di rivolgersi agli dèi per avere il loro aiuto

Petitio (petizione) ha il significato di:

  • attacco, colpo, assalto, stoccata;
  • domanda, richiesta, preghiera, supplica;
  • cercare di giungere a
  • candidatura;
  • petizione;
  • riscossione

Il termine è di origine indoeuropea.   Dall’insieme dei significati si può ipotizzare:

  1. che il luogo conducesse a un altro (Erbia), nel senso che ne costituisse una tappa verso;
  2. che nel luogo indicato si tenessero riti propiziatori prima di salire al luogo dove poteva esserci il santuario vero e proprio o un luogo dedicato a una o più divinità;
  3. che il luogo fosse dedicato alla Dèa Peta.

Da tutti e tre i casi emergerebbe l’indicazione di un luogo propedeutico, che ne preparava e indicava un altro. Il luogo potrebbe dunque essere una tappa di un percorso antico.

La seconda derivazione riguarda la Dea Perchta, la “Signora del gioco”.  Peta, in questo caso, deriverebbe dalla corrosione di Perchta (ritroviamo anche qui Diana in altra forma). Siamo in presenza del mito dei viaggi notturni delle schiere di donne guidate  da Abundia-Satia-Diana-Perchta, e quindi della caccia selvaggia o esercito furioso di odinica memoria. Peta è, con tutta probabilità, la “Signora del gioco”, divinità norrena (Percht, detta anche Holda, Oriente, Berthe), associata a Diana e dèa della fertilità e della vegetazione.

A VIADANA “PRATO CHIERICO”

Viadanica, provincia di Bergamo,  è un antico centro agricolo della valle di Adrara, alla sinistra del torrente Guerna. Dalla parrocchiale si sale per una strada a tornanti fino alle frazioni di Giogo, due Torri (caratteristico nucleo con forti impronte medievali) e Lerano, dalla quale si raggiungere la vetta del Monte Bronzone (1334 m), la sorgente di “Scanecòl” o il colle Cambline, nelle cui vicinanze si trova la piccola grotta del “Bus del Coren”, abitata già in epoca preistorica. In altura, a Prato Chierico, c’è un cerchio di pietre, probabile luogo di culto antico.

viadanica