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IL BASILISCO DI CASNIGO

Nella Àl dé Póss, che sale dal Serio verso il monte Erbia, là dove ora sorge una santella dedicata alla Madonna, la tradizione vuole che dimorasse il basilisco, i cui occhi sarebbero scavati nella pietra che sovrasta la cappelletta.

Il basilisco, “piccolo re”, presente nelle tradizioni di molti luoghi dell’arco alpino, è una chimera che nasce da un uovo di serpente covato da un gallo; ha coda di serpente, testa d’ariete e corna di mucca ed è il risultato simbolicamente sincretico dell’antico culto del serpente, ovvero della Dea Madre, ereditato, inglobato e trasformato (covato) dai Celti indoeuropei, portatori di culti solari.

La simbologia è netta  e non lascia spazio ad equivoci: il serpente è associato alla Dea Madre, mentre il gallo è simbolo solare, in quanto annuncia il sorgere dell’astro al mattino. Il basilisco è, dunque, simbolicamente, la sintesi di due culture: quella del Neolitico, matrilineare e connotata dalla Dea, spesso rappresentata come serpentiforme e quella indoeuropea, patrilineare e solare.   Del basilisco troviamo numerose testimonianze nel folklore.

IL TEMPIO DI MERCURIO A SANT’EUFEMIA

Tra i molti ritrovamenti nell’area sacra di sant’Eufemia (Comune di Brescia), dedicata a Mercurio, uno, in particolare, mi è parso di notevole interesse, ossia l’iscrizione che compare sull’architrave di un tempio, del quale, peraltro, non si è, fino ad ora, trovata altra testimonianza.

L’iscrizione è:

PRIMIO CARIASSIS FILIUS

MERCURIO AEDEM ET SIGNUM

SOLO SUO EX VOTO DEDIT

In merito, nel testo “Marmi bresciani raccolti nel museo patrio classificati e illustrati dal cavaliere Dr Giovanni Labus”[1], a pagina 54, troviamo testimonianza del fatto che l’iscrizione fu rinvenuta a S.Eufemia e che il dedicante era di origine gallica. Nel testo si legge: “Uscì alla luce nel borgo di S.Eufemia l’anno 1876, ed emigrò ad ornare le Torri dè Picenardi presso Cremona. Fu pubblicata dal Bianchi, al quale il nome di Primione Cariasse sono paruti sì barbari che inclinava quasi a credere tanto il padre che il figlio di schiatta servile[2]. Meglio però era crederli di gallica schiatta, e ravvisare in Cariasse il marito di Medussa, di cui vedemmo un titoletto a Minerva, e in Primione un suo figlio, il cui nome, da non confondersi con altri di simile uscita sopra allegati (…) anziché barbaro, doveva dirsi di buona latinità e recato da costui per accostarsi alle usanze romane. Primio è diminutivo di Primus, come Secundio, Quartio, Sextio sono diminutivi di Secundus, Quartus, Sexstus, egualmente che Asellio, Callisto, Hilario, Ursio il sono di Asellus, Callistus, Hilarius, Ursus. Il nostro Primione, oltre al tempietto, fabbricato sul proprio fondo, AEDEM SOLO SUO, volle anche innalzare a Mercurio la statua ET SIGNUM, la quale certamente non sarà stata come quella descritta dal Rossi [3], ché Mercurj con un occhio solo in fronte, una stella sul petto, il pugnale in una mano, il caduceo nell’altra sono ignotissimi a tutte l’antichità. La semplicità ed eleganza dell’epigrafe mostra ch’essa è dai tempi migliori”.

Nella sua descrizione il Labus fa riferimento ad una dedica a Minerva da parte di Medussa e Cariasse, che riporta a pagina 27 del suo testo.

MINERVAE

SACRUM

MEDUSSA . CARIASS.

V.S.L.M.[4]

A pagina 29 della sua opera il Labus, inproposito scrive: “Ma più conforme al vero ne pare leggere Medussa Cariassis Filia, perché cenomani sono il nome di lei e quel di suo padre; ed è noto che i Galli, i Germani e in generale tutti i barbari usavano un solo nome, e servivasi di quello del padre o della madre pel proprio cognome: Strenus Brisiae Filius, Rufus Brigovicius flius, Vesgasa Brittionis filia, … . Il Bianchi, copiando un errore di Gudio, credeva Cariasse nome greco femminile, lo tramutava in Cariessa, …, che vuol dire vezzosa, e allegava le storie del Capriolo, nelle quali di Cariessa non vi ha ricordanza”.

Dalle note del Labus si evincono alcuni dati interessanti. In primo luogo che il dedicante era di origine gallica. In secondo luogo che Primio, figlio di Cariasse, aveva edificato il tempio su un’area di sua proprietà. In terzo luogo, che oltre al tempio, aveva anche fatto costruire una statua a Mercurio. Infine, che Cariasse aveva una moglie o una figlia di nome Medussa.

Del tempio, come s’è detto, non rimane altra testimonianza che l’architrave con l’iscrizione che abbiamo più volte citato. Della statua non v’è alcuna documentazione.

Tuttavia, partendo dalle misure del frontone e utilizzando i canoni costruttivi di Vitruvio, l’architetto Stefano Capretti ha disegnato una possibile ricostruzione del tempio di Mercurio.

tempietto

A questo punto potremmo dichiararci soddisfatti, ma la curiosità ci spinge oltre.

Chi era Medussa?

Se abbandoniamo l’insistente ricerca etimologica nelle lingue latina e greca e ci rivolgiamo alla lingua dei Galli, notiamo che il suo nome deriva dal celtico “medus”, bevanda ottenuta facendo fermentare il miele nell’acqua, ossia l’idromele. Medussa è dunque “melusa”, “melusina” “mielosa”, “dolcezza” “dulcinea”.

E Cariasse? Parrebbe derivare dal genitivo celtico di car (amicizia, amore): car – ias, dove il suffisso ias indica appunto il genitivo. Cariasse sarebbe dunque il signor D’Amore o Dell’Amore.

Se così fosse il tempio di Mercurio di S.Eufemia sarebbe stato costruito da Primione, figlio del signor D’Amore o Dell’Amore e la dedica a Minerva sarebbe opera della signora Medussa (Melusina o Dulcinea), moglie o figlia del signor D’Amore, ossia la signora Dolcezza D’Amore.

Ricostruzione evidentemente improbabile.

Assai più vicina alla realtà una tradizione che indica come il tempio fatto costruire in onore di Mercurio da Primione, figlio dell’amore (ossia un gallo romano, probabilmente figlio illegittimo di qualche famiglia nobile), contenga una dedica all’amorevole Minerva.

1  “Marmi bresciani raccolti nel museo patrio classificati e illustrati dal cavaliere Dott. Giovanni Labus” – Milano, 1854 – Tipi della ditta Angelo Bonfanti – Biblioteca Queriniana SB A XI 43.

2Marmi Cremonesi, pag. 47 (nota del Labus).

3Memorie bresciane, pag. 40 (nota del Labus).

4Proveniente, secondo il Labus, da Cellatica e trasferita al Museo Capitolino.

PITACHINA, OVVERO LA PERCHTA, LA “SIGNORA DEL GIOCO”

Una leggenda tramandata oralmente a Cevo, in provincia di Brescia, mi è stata narrata dalla madre di Lorenzo Cervelli, Enrichetta Gozzi, con una filastrocca.

“Quanche la Cumpagnia la rua al dos de Re, la “Pitachina” la alsa so al pè; quanche la cumpagnia la rua al dos de Brata, la “Pitachina” la ghigna che la crapa; quanche la cumpagnia la rua al dos de la Roca, la “Pitachina” la sa copa”.

Quando la Compagnia arriva al dos del Re, la Pitachina alza il piede. Quando la compagnia arriva al dos de Brata, la Pitachina ride a crepapelle. Quando la compagnia arriva al dos della Roca, la Pitachina si uccide.

La Pitachina, secondo la leggenda, era una strega che arrivava da Andrista con la “Compagnia”, ossia con un gruppo di streghe e di anime di morti, e si dirigeva verso il Dos Merlino, passando dal Dos del Re, località tra Fresine e Zimilina di Cevo, dove in inverno le donne di Fresine andavano e vanno tuttora a scaldarsi al sole (a Fresine il sole non arriva da fine ottobre al 13 gennaio). Il Dos de Brata è il dosso Merlino. Quando la Pitachina arrivava sul Dos de la Roca (posto sul crinale tra Cevo e Sonico) la Pitachina si uccideva.

Siamo in presenza del mito dei viaggi notturni delle schiere di donne guidate  da Abundia-Satia-Diana- Perchta, Holle e quindi con quello della caccia selvaggia o esercito furioso di odinica memoria.

“In Svizzera – scrive in proposito Marie Louise Von Franz – abbiamo ciò che si chiama la Salige Lut, la caccia selvaggia. Qui e in molti altri paesi europei, i morti vanno in giro con Wotan nell’oscurità della notte degli ultimi giorni di ottobre fino al secondo giorno di novembre. Questo è sempre il periodo in cui vi sono grandi temporali  e il dio del vento è estremamente in evidenza. Sotto la guida di Ermes-Mercurio nel mondo greco romano e di Wotan dall’altra parte delle Alpi, i morti venivano dall’aldilà e vagavano intorno”[1].

La strega Pitachina è con tutta probabilità la “Signora del gioco”, ossia la divinità norrena (germanica) Perchta (Percht, detta anche Holda, Oriente, Berthe, Berta), associata a Diana e dea della fertilità e della vegetazione. “Va considerata la possibilità che questa divinità, della quale la domina ludi (la Pertachina, corruzione di Perchtachina in Pertachina, n.d.a.) era una delle molte personificazioni, condividesse con Thor (divinità norrena e celtica, n.d.a.) il potere di richiamare in vita gli animali, così come pare condividesse con Odino la funzione di guida dell’esercito furioso”.[2]

Perchta è associabile a Freya o Freja (il cui nome significa Signora), sposa di Odr, probabile manifestazione di Odino. Freya, a sua volta, è spesso confusa con Frigga. Mentre la prima è dea dell’amore sensuale, Frigga lo è dell’amore matrimoniale e del destino. Rappresentano due aspetti (giovanile e maturo) della Dèa madre.

Holla, Hell, Holda, Perchta, fa notare Marja Gimbutas[3] è la brutta vecchia strega dal lungo naso, grossi denti, capelli arruffati, ossia quella che poi è diventata la “vecchia” da bruciare. La sua forza risiede nei denti e nei capelli. “E’ una donna che determina il clima e la neve. Allo stesso tempo rigenera la natura. E’ una donna che fa uscire il sole. Una volta all’anno compare come colomba, dono del cielo che assicura fertilità. Come rana, Holla riporta la mela rossa, simbolo della vita, alla terra dal pozzo in cui è caduta durante il raccolto. Il suo regno sono le viscere dei monti e delle grotte (Holla, nome della Dea, e Höhle, “grotta”, sono certamente connessi. Hell, nel suo significato attuale di “inferno” è un apporto dei missionari cristiani). A Holla, in quanto madre dei morti, si offriva il pane chiamato Hollenzopf,  “la treccia di Holle”, nel periodo di natale. Holinder “albero maggiore” era l’abero sacro della Dea dotato di poteri curativi. Sotto questo albero vivevano i morti”[4].

La Compagnia, ricorda, quella dei Benandanti (maghi e stregoni) friulani, dei quali ha scritto Carlo Ginzburg[5], combattenti per la fertilità, trasformati in professionisti nelle arti magiche, e Pitachina la domina cursus, “che nella tradizione demonologica comandava le orde stregonesche lanciate nella corsa verso il sabba”. [6]. “La caccia selvaggia è un mito in cui sono presenti demoni, figure ibride di animali: una forsennata e temuta orda notturna, in cui si riflettono molti elementi del corteo in volo al sabba, amalgamata al mito del corteo degli spettri”. [7]

Intorno all’anno Mille, Bucardo di Worms, nel De inantatpribus et auguris e nel De poenintentia “descrive molti culti pagani sopravvissuti e in particolare cita le cavalcate notturne delle streghe per il cielo in compagnia di Diana”.[8]

La Signora del gioco, “nella tradizione della stregoneria, era colei che aveva il compito di dirigere e coordinare le donne datesi a Satana e riunitesi nel sabba.

Si tratta di tradizioni religiose precristiane connesse ai culti stagionali”. [9]

Una versione della leggenda della Signora del gioco la troviamo anche in quanto narra Daniela Rossi[10]: “Tra Cevo e Saviore, al Bàit dei Sàncc (Fienile dei Santi), di notte si sente la Dòna del zöck, la Signora del gioco, residuo di antiche divinità pagane, forse una volgarizzazione di Erodiade o Diana; tale entità è citata nel Canon Episcopi, apportatrice di danni e paure. Secondo la tradizione saviorese, in questo fienile ridde di demoni d’ogni sorta intessevano danze sabbatiche: talvolta i giovani del paese venivano invitati a festeggiare da avvenenti creature, che rivelavano poi la loro natura, mostrando ripugnanti piedi di capra. Chi osasse avvicinarsi vedrebbe “un lume in basso quando si trova in alto, in alto quando si trova in basso”. Quando la Dòna del zöck giungeva nei pressi di baite isolate, faceva impazzire gli animali, graffiava porte e finestre, lasciava i prati ricoperti d’escrementi; si potevano vedere i segni della stregoneria sugli animali (come i crini intrecciati dei cavalli) che di lì a poco sarebbero morti.[11]

A queste leggende si collega anche quella della cagnolera, ossia di un rumore dovuto, secondo la tradizione, alle anime dei morti. Rumore che si sentiva di notte nei pressi del cimitero di Cevo o della residenza dei Gesuiti.

[1] Marie Louise Von Franz, Il filo di paglia, il tizzone e il fagiolio, Moretti & Vitali, Bergamo

[2] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998

[3] Marja Gimbuta, Il linguaggio della Dèa,

[4] Marja Gimbutas, Il linguaggio della Dèa,

[5] Carlo Ginzburg, I Beneandanti, Einaudi

[6] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998

[7] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998

[8] Laura Rangoni, Le fate, Xenia

[9] Massimo Centini, Le bestie del diavolo, Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Rusconi, Milano, 1998

[10] Daniela Rossi, op. cit.

[11] Daniela Rossi, op.cit.

GLI ZANNI, ARLECCHINO E ODINO

Gli Zanni hanno origini antiche, probabile trasformazione veneziana del Gianni, denominazione che, come quella della maschera torinese Gianduia, rimanda a tempi remoti, ben più antichi di quelli della Commedia dell’Arte, sulla quale, per ora, ci soffermiamo.

L’identificazione “bergamasca” dello Zanni, una delle maschere più significative della Commedia dell’Arte, muove dalle radici medievali della maschera del “servitor bergamasco”, divenuta celebre nelle drammaturgie e pratiche teatrali di tutta Europa.

Un possibile processo interpretativo riguarda il legame tra la figura storica e sociale dell’emigrante-facchino bergamasco che approda al riconoscimento di una naturale e radicata “tendenza all’impresariato” tipica dei valligiani orobici. I “fachini”, come venivano chiamati in laguna, lavoratori “industriosissimi”, avevano il loro punto di riferimento nella zona di Rialto, cuore economico e commerciale della città, ma non disdegnavano, allo stesso tempo, di partecipare a feste carnacialesche o a spettacoli allestiti dalle Compagnie della Calza.

Interessante anche un aspetto vocazionale internazionale. Gli Zanni, nel loro “viaggio dei comici” hanno toccato molti paesi d’Europa: dalla Francia alle Fiandre, alla Spagna, dove ha operato, tra il 1574 e il 1579, il celebre “presunto” bergamasco Zan Ganassa, incarnazione del mercenario-imprenditore di se stesso e del proprio mestiere.

A Venezia gli Zanni erano riconoscibili anche perché si identificavano in precise corporazioni, rette da regole e consuetudini che avevano trasfuso nella città lagunare quei forti vincoli di solidarietà reciproca tipici della gente di montagna. Negli sviluppi economici di quella mercatura in continua evoluzione, queste corporazioni garantivano un certo grado di tutela, sia per i salariati, che non isolatamente contrattavano le loro prestazioni, sia per i committenti, cui veniva assicurato un sicuro ed efficace servizio da parte della stessa corporazione incaricata.

Le corporazioni bergamasche, in occasione di particolari ricorrenze liturgiche e profane, rafforzavano poi anche con significativi momenti di aggregazione gli aspetti più caratteristici delle comunità originarie. I canti e i balli della loro tradizione, i loro dialoghi, non meno vivaci e sapidi, erano un vero spettacolo che si decifrava più dall’insieme dei gesti che dal significato delle parole. La comunità bergamasca, che già di per sé aveva enfatizzato alcune posture ed alcuni vezzi atavici, finì oggetto di numerosi lazzi comici.

All’occhio e all’orecchio attenti e critici, quei versi e quei lazzi, quei canti e quei balli, quei dialoghi trasmettevano un’antica sapienzialità volutamente criptata.

Di questa criptata testimonianza di antiche storie è emblema riconoscibile la maschera di Arlecchino.

Arlecchino non smette infatti i panni dello Zanni, servo umile e sciocco delle prime rappresentazioni, ma, a un certo punto, nella definizione del suo carattere cresce il grado di una incontrovertibile simpatia capace di capovolgere a suo favore ogni altro ruolo, sovvertendo addirittura la superiorità emblematica dei padroni di casa, Pantalone compreso. E’ come se, uscendo dalla copertura di una caratterizzazione volutamente sciocca, ingenua, umile, Arlecchino volesse far capire che dietro alla maschera si nasconde ben altro per chi ha occhi per vedere e orecchi per sentire.

La maschera di Arlecchino ha origine dalla contaminazione di due tradizioni: lo Zanni bergamasco da una parte, e personaggi diabolici, farseschi della tradizione popolare francese, dall’altra. La carriera teatrale di Arlecchino nasce a metà del cinquecento con l’attore di origine bergamasca Alberto Naselli, noto come Zan Ganassa, che porta la commedia dell’arte in Spagna e Francia, sebbene fino al 1600, con la comparsa di Tristano Martinelli, la figura di Arlecchino non si possa legare specificatamente a nessun attore.

L’origine del personaggio è invece molto più antica, legata com’è alla ritualità agricola.

Jacques Brosse, nel suo interessante saggio: “Mitologia degli alberi” riferisce del come il cronista anglo normanno Orderico Vitale racconti, a questo proposito, nella sua Historia ecclesiastica, che “una notte del gennaio del 1092 il prete Gauchelin, della diocesi di Lisieux, assistette al passaggio della cavalcata infernale, corteo di anime prigioniere del demonio e da questo trascinate via per punizione dei loro peccati”. “In mezzo a loro – scrive Brosse – Gauchelin riconosce alcuni dei suoi penitenti e può addirittura intrattenersi con loro. Questa “caccia di Artù’” è anche detta la “mesnie Hellequin” da mesnie o maisnée, nel senso di seguito, di convoglio (in questo caso un convoglio dell’inferno). Quanto al nome Hellequin, o Hennequin, o Herne, come il cacciatore che attraversa a cavallo la foresta delle Allegre comari di Windsor di Shakespeare, ha dato origine ad Arlecchino, termine usato per la prima volta nel 1275 da Adamo de la Halle nel Jeu de la feulliée, dove sta a indicare una specie di “arcidiavolo”. Alla fine del sedicesimo secolo, il buffone di una compagnia di attori italiani venuto dalla Francia s’impadronì di questa figura rimasta popolare per dare nuovo spicco alla parte di “Zani” da lui interpretata. Così il personaggio di Arlecchino, che a parte la maschera nera non ha più niente di preoccupante, viene in un certo senso a trovarsi libero da ogni sortilegio”. “Il nome Hellequin – aggiunge Brosse – può solo derivare dal germanico Helle, “inferno”, e dall’inglese king (tedesco König), “re”, e compare nell’ambiente anglonormanno del dodicesimo-tredisesimo secolo (in inglese medio Herle King). Secondo Wartburg, il termine “molto probabilmente ha alla base uno dei nomi del dio Wodan, che qui ha la parte di capo di questa orda di demoni”. E . . . Wodan-Odino è un dio degli alberi, il dio dell’Albero cosmico”.

Siamo, dunque, di fronte ad un mito antichissimo, riguardante Odino e la cavalcata delle Walkirie, che ritroviamo in parte nelle cacce selvagge, nella Dèa Perchta, in Frau Holle, ossia in tutti quei miti norreni che sono poi declinati  nella tradizione popolare più recente nella caccia morta, ossia in scorribande di anime morte e dannate al seguito di diavoli o di streghe.

Brosse richiama il fatto che gli “Zanni” della Commedia dell’arte abbiano raccolto Arlecchino, facendolo diventare uno di loro, per dare nuovo spicco alla maschera di Zani. Tuttavia, altre testimonianze indicano l’intimo antico rapporto tra Zanni e Arlecchino.

Troviamo, infatti gli Zanni anche a Pescorocchiano, comune che insieme a Borgorose, Petrella Salto e Fiamignano forma quella porzione dell’ex circondario di Città ducale chiamato Cicolano, proprio ai confini con l’Abruzzo, nella fascia montuosa dell’area sabina.

Lo Zanni in quest’area è la figura centrale di un rituale chiamato moresca, eseguito secondo alcuni studiosi fino agli anni ’30 del secolo scorso.  Il rituale, secondo alcune interpretazioni trarrebbe origine dalla rievocazione della lotta tra turchi e cristiani, mentre secondo altre deriverebbe da ben più antiche usanze, che si basavano sulla contrapposizione delle forze del bene a quelle del male e svolgevano un ruolo propiziatorio all’interno dei riti agresti del periodo primaverile.

A combatterle sono gli Zanni, arcaiche maschere nelle quali si ritrovano fusi insieme elementi demoniaci e comici, le cui sembianze e gestualità richiamano alla mente i giullari medioevali. Intorno alla seconda metà dell’800, in alcuni paesi, il rituale assunse una forte connotazione anticlericale in quanto veniva effettuato durante il periodo di quaresima.

L’opposizione tra le due entità rappresentate all’interno del rituale, è in perfetta armonia con uno dei temi principali del Carnevale, che è, appunto, una “opposizione” alla quaresima e alla quotidianità della vita.

Culturalmente, per le classi popolari, durante il Carnevale, si verifica una sorta di ribellione al periodo penitenziale e alla precarietà esistenziale di ogni giorno. L’allontanamento del “negativo” genera una realtà virtuale (“positiva”) in cui sono tutti posti nella stessa condizione sociale, in cui tutto è lecito, insomma una uguaglianza illusoria che comunque cela in sé la coscienza di una reale disuguaglianza.

CU CHULAINN E IL CALENDARIO

Nei miti, nelle leggende, nelle fiabe spesso si celano nozioni scientifiche.

Spesso miti, leggende e fiabe sono strumenti mnemonici che sottendono acquisizioni scientifiche.

Miti, leggende, fiabe, si pongono pertanto come scrigni che vanno aperti mediante letture dei vari livelli che essi propongono alla nostra attenzione.

L’eroe irlandese Cu Chulinn veniva descritto come un bel fanciullo con sette (7) dita per ogni piede e per ogni mano. Tra un orecchio e l’altro aveva cinquanta (50) lunghe trecce gialle come la cera d’api. Portava un manto verde, fermato sul petto da una fibbia d’argento e una camicia di fili d’oro. I suoi occhi avevano sette (7) pupille da ognuna delle quali uscivano sette (7) scintille. Su ogni guancia aveva quattro nei: uno blu, uno rosso, uno giallo e uno verde.

Cu Chulainn

E’ evidente che numeri e colori non sono messi a caso, ma nascondono un codice. Quale?

Abbiamo sette dita per ogni piede e per ogni mano. Ogni mano (ed ogni piede) corrisponde ad una settimana. Un dito, un giorno. Sette per 4 = 28 è numero riferibile al ciclo lunare: quattro fasi in un mese di 4 settimane. Tra un orecchio e l’altro 50 trecce gialle (raggi dorati) indicano un ruolo solare e calendariale, in quanto 50 trecce più due orecchie danno 52 settimane, ossia un anno solare (364 giorni). Se dividiamo 52 per quattro, otteniamo 13, ossia il numero delle lunazioni in un anno solare (13 lunazioni per 28 giorni = 364 giorni). Questi numeri, come hanno in seguito dimostrato i vari aggiustamenti del calendario, erano approssimativi. Il 52, inoltre, è il numero di Thoth, uno dei numeri più significativi della geometria sacra, relativo anche al piede d’oca, simbolo della Melusina, la Mére Lugine, paredra di Lugh (padre celeste di Cu Chulainn). Ogni occhio ha sette pupille che emettono 7 scintille. Le pupille richiamano l’iride, ovvero l’arcobaleno (Iride, paredra di Mercurio-Thoth, Lugh, Hermes è messaggera degli Dei e usa l’arcobaleno come collegamento tra cielo e terra), con i 7 colori e con la funzione di ponte tra il mondo celeste-divino e il mondo terrestre-umano. Sulla guancia ha 4 nei: blu, rosso, giallo, verde, ossia i colori della Dea, ma anche i colori primari. Su un lato del viso abbiamo 49 (sette pupille per sette scintille) più 4 nei: 49+4=53. Possiamo anche considerare l’occhio come 50, ossia 7 per 7= 49, più ciò che contiene pupille e scintille. L’occhio intero è 50. In questo caso abbiamo 50 per un occhio, 50 per l’altro occhio e 50 per le trecce da orecchio a orecchio. L’insieme è 150, numero che troviamo sempre presente (come il 50) nella saga di Cu Chulainn. La descrizione delle fattezze di Cu Chulainn si presenta, dunque, come una sorta di manuale sintetico dal quale, con un’opportuna capacità di lettura, si possono estrarre molte informazioni, a partire da quelle relative al rapporto calendariale tra luna e sole (calendario soli-lunare).

Occhio di Horus

Per analogia possiamo riferirci all’esempio dell’occhio sinistro di Horus, colpito da Seth e ricomposto da Thoth, che nell’insieme rappresenta 63/64.  L’occhio destro, non colpito da Seth, è 64/64, ossia l’intero.

CESAIR IL MITO E LA FISICA

Nei miti, nelle leggende, nelle fiabe spesso si celano nozioni scientifiche.

Spesso miti, leggende e fiabe sono strumenti mnemonici che sottendono acquisizioni scientifiche.

Miti, leggende, fiabe, si pongono pertanto come scrigni che vanno aperti mediante letture dei vari livelli che essi propongono alla nostra attenzione.

Nella tradizione mitologica relativa ai Fianna, Finn mac Cumaill, che ne diventerà il comandante, quand’era giovane catturò un salmone che si rivelò essere l’ultima metamorfosi di Fintan, lo sposo di Cesair, la prima donna a mettere i piedi sul suolo d’Irlanda prima del diluvio. Scottatosi un dito mentre cuoceva il salmone, Finn lo portò alla bocca ed ebbe così accesso all’antica sapienza di Fintan.

Ritroveremo la modalità di accesso alla conoscenza di Finn nel mito di Taliesin, il quale, scottatosi anch’egli un dito con tre gocce del liquido che bolliva nel calderone di Karidwen, ebbe la conoscenza.

Esiste, dunque, una conoscenza antica che si acquisisce “scottandosi” ed assorbendone l’essenza con un gesto (il succhiarsi il dito) che evoca quello di un bambino, ossia di chi è libero da schemi e, al contempo, di chi è disponibile a congiungere alla trasmissione orale della conoscenza teorica quella delle mani, ovvero delle opere, del fare.

Il mito di Fintan induce a pensare ad una conoscenza antidiluviana, salvatasi dal disastro di antiche civiltà e ripropostasi, in vesti diverse (le metamorfosi di Fintan) fino a ricongiungersi al druidismo in epoca storica. Un pensiero, questo, che richiede di soffermarci su un antico mito irlandese e sui possibili significati nascosti con l’uso di un poco di pazienza per le parti relative alla numerologia e alla geometria sacra.

Nella mitologia irlandese, così come è stata trasmessa filtrata dagli amanuensi cristiani nella letteratura del XII secolo, Fintan risulta essere figlio di Bóchra, a sua volta figlio di Bethach, fratello di Noè. Sua moglie Cesair è invece figlia di Bith, figlio di Noè. Fintan e Cesair sbarcano in Irlanda quaranta giorni prima del Diluvio, con altri uomini e donne, i quali muoiono tutti prima che le acque sommergano l’isola. Fintan si rifugia su Tul Tuinne, la “Collina dell’onda” (un riferimento mitologico molto simile alla collina primordiale che emerge dall’oceano primordiale di molte tradizioni) in una grotta, entra in uno stato di catalessi (la conoscenza è nascosta) e diventa immortale, trasformandosi nei secoli in salmone, in aquila e in falco, divenendo testimone di tutte le invasioni che in tempi successivi hanno coinvolto l’Irlanda.

Fintan, dunque, stando al mito, è il detentore dell’antica conoscenza prediluviana; è un sopravvissuto divenuto immortale, ma è anche, se letto in controluce, un elemento importante della mitologia della creazione, andata perduta, dei popoli dell’Europa occidentale.

Fintan contiene nel suo nome il concetto di bianco (Fin) associato a quello di luminoso. Il nome di suo padre è Bóchra e significa oceano.

Dall’oceano primordiale, oggi diremmo il campo zero quantico, il Nero luminoso, il collasso dell’onda dà origine al Luminoso, il quale sbarca sull’isola d’Irlanda a Dún na mBarc, nel Corco Duibne, nel Múmu occidentale in compagnia di altri due uomini e di cinquanta donne (il tre e il cinquanta sono numeri che troviamo costantemente nella mitologia druidica). Dal luogo dello sbarco Fintan giunge a Bun Suaimne, nei pressi di Cumar na Tri nUisce «Confluenza delle tre acque», perché tre fiumi vi mescolano le proprie acque: il Siuir, il Feorech e il Berba.

Il Luminoso, emerso dall’oceano primordiale, approda all’Eden-Irlanda-Isola, dove tre fiumi uniscono le loro acque e sulla collina primordiale, in una grotta, ossia nella Dea Madre, dopo un periodo di gestazione (la catalessi) entra nel mondo delle forme, trasformandosi in salmone, aquila, falco.

L’aquila e il falco sono simboli della parte spirituale e ci ricordano che Fintan, il Bianco, è figlio dell’oceano primordiale, ovvero l’oceano celeste, il Nero luminoso, Belenus (dal basco Beltz-nero), dal quale escono i  mondi.

Il salmone ci ricorda la possibilità di risalire la corrente fino alla conoscenza originaria.

Fintan è sposo di Cesair, che viene identificata con Banba, la Dea eponima di Ériu. Ban significa donna o, meglio, il femminile. Cesair è la prima donna a posare il piede sulla di terra d’Irlanda ed è in un certo senso l’Irlanda stessa.

Banba, Ériu e Fódla sono le tre regine del popolo Dánann, ossia della Dea Dana, e sono eponime dell’isola d’Irlanda. Nel mito di Fintan abbiamo Cesair, sua moglie, Barrfinn (Punta lucente), moglie  di Bith (mondo) e Balba (moglie di Ladra).

Nella cronaca degli Scoti si parla esplicitamente della prima donna giunta in Irlanda, alla quale vengono attribuiti i tre nomi di  Ériu, Banba e Cesair.

Siamo in presenza di un antico mito in cui una donna una e trina, ossia la Dea Madre, la Triplice, fonda Ériu, l’Isola di smeraldo, ossia il verde Eden, il Paradiso terrestre, dove c’è la collina primordiale e scorrono tre fiumi le cui acque si uniscono.

L’Irlanda è, dunque, simbolicamente la Dea Madre Terra e il Paradiso terrestre.

Cesair significa grandine, ovvero acqua che si solidifica, un aspetto dell’oceano primordiale indifferenziato che si differenzia e si evidenzia, il collasso dell’onda del campo quantico, l’emergere della manifestazione dall’immanifesto.

I nomi delle cinquanta fanciulle giunte con Fintan in Irlanda danno l’idea di una progressiva differenziazione della manifestazione in ciò che chiamiamo l’universo creato.

Seguendo la traduzione suggerita dal commento ai testi mitologici irlandesi proposta da Bifröst (www. Bifröst.it) abbiamo: Rinne-promontorio, Tam-terreno disboscato, Fodarg-terra profondamente arata, Aíl-rupe o scogliera, Tamal-spazio o distanza, Abba o Aba-fiume, Bona-eterna e Irrand-terra o mondo. Altre fanciulle sono eponime di popolazioni.

Il mito di Fintan si propone,  dunque, come antico mito della creazione, simile a molti miti dell’origine del mondo riscontrabili in altre culture, come quello indù relativo al monte Meru, montagna sacra al centro dell’universo o quello egizio di Atum che esce dall’uovo cosmico nel Nun, oceano di energia immobile, e prende forma su una collina primordiale rappresentata dalla piramide. Difficile ritenere a questo punto, come qualcuno fa, che i druidi non ci abbiano lasciato un loro mito della creazione.

Siamo di fronte ad un’evidenza che si rende tale nel campo quantico indifferenziato e che, in quanto evidenza, entra nel limite spazio-temporale e nell’ambito del molteplice. Dall’oceano di energia immobile e indifferenziato, il Nero luminoso, emerge agitandosi in forma d’onda (il verbo), la luce che si differenzia e dà luogo alla molteplicità della materia.

Il mito di Fintan ci suggerisce inoltre l’esistenza di una civiltà prediluviana che incontriamo in molte mitologie in tutto il mondo.

Il mito di Fintan, ancora, ci suggerisce le tracce di una conoscenza antica, prediluviana, nascosta, sospesa, in catalessi, racchiusa nel mistero, ma le cui chiavi possono essere riscoperte. Ricaviamo, infatti, dal mito una serie di numeri di grande interesse. Ci sono tre uomini e cinquanta donne. Le donne vengono divise tra i tre uomini cosicché 17 spettano a Fintan (compresa la moglie Cesair), 17 a Bith (compresa la moglie Barrfin) e sedici a Ladra (inclusa la moglie Balba). Abbiamo, quindi, in evidenza i numeri 3, 50, 17 e 16. I riferimenti numerici sono assai interessanti. Il numero 50 è la somma dei quadrati dei lati del triangolo pitagorico o, meglio, del triangolo di Iside, detto anche triangolo sacro, noto ai druidi, i quali lo tracciavano con una corda suddivisa in dodici segmenti uguali contraddistinti da nodi.

Il noto teorema di Pitagora ci dice che la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa, quindi: 9+16=25. La somma dei quadrati è: 9+16+25=50

Cinquanta è, dunque, il numero del triangolo sacro.

Se moltiplichiamo 50 (le donne) per tre abbiamo 150, un numero che, come il primo, troviamo in molte leggende celtiche, come, ad esempio, quelle dell’eroe Cu Chulainn.

(vedi https://idruidi.org/2015/12/08/cu-chulainn-e-il-calendario/).

Se aggiungiamo a 150 (3 per 50) il moltiplicatore 3 otteniamo 153, che si rivela essere un numero assai interessante, in quanto è la somma di tutti i numeri dall’uno al 17 ed è anche il prodotto di 17 per nove. Il numero 153, inoltre, è il triangolare di 17 e l’esagonale di 9.  Cosa significa? Significa che il 153 è la rappresentazione geometrica del 17 e del 9. Il procedimento, nel quale erano esperti i Greci, consiste “nel proiettare nello spazio le diverse realtà matematiche. Se invece di scrivere i numeri per mezzo di un sistema di numerazione li si rappresenta tramite gruppi di punti, si scoprono proprietà aritmetiche interessanti. Si può immaginare un numero – o qualunque altro principio astratto – come una realtà tangibile: lo si può, se non materializzare, quanto meno visualizzare”. [i]  L’esempio classico è la tetraktis pitagorica. Il punto è l’antenato comune. Nella tetraktis il numero manifesto è 4 che, rappresentato con il metodo triangolare, dà luogo alla somma di 1+2+3+4=10, dove 1, 2, 3 sono, come il 10, numeri segreti. In particolare il 10 è il numero triangolare di 4.

Nel nostro caso 153, come abbiamo visto, è il triangolare di 17 e l’esagonale di 9.

Potremmo ancora notare che 153 è 12 al quadrato più 3 al quadrato e il 12 è un numero importante, in quanto è la somma dei lati del triangolo sacro. Il 153 è inoltre 1 al cubo, più 5 al cubo, più 3 al cubo, “il ché lo rende uno dei quattro numeri (diversi da 1) che sono uguali alla somma dei cubi delle proprie cifre”. [ii]

Si evidenzia, dunque, un legame tra i numeri 50, 3 e 17, ossia tra il numero totale delle donne, i tre uomini e la prima divisione delle donne in due schiere di 17, restando l’ultima di 16 (quadrato di quattro) per differenza. Notiamo, inoltre, che l’insieme dei componenti il popolo di Cesair è di 53, che moltiplicato per cinque dà 265, numero che, come vedremo, risulta di grande utilità.

Il cinque, come il tre, era numero sacro ai druidi, in quanto rappresentava la stella a cinque punte, simbolo della mano e della Dea, ma anche della conoscenza del numero aureo.

[i] Marc-Alain Quaknin, I Misteri dei Numeri, Atlante – Bologna

[ii] Le Scienze, dicembre 2009, pag.28: “Tutto sul centocinquatatre”

LA GEOMETRIA DELLA VASCA DI BIBRACTE

La geometria della vasca di Bibracte, uno dei luoghi sacri più significativi della cultura druidica, è testimonianza concreta della conoscenza da parte dei druidi del triangolo pitagorico e di altre figure geometriche e numeri della geometria sacra, ovvero della geometria con la quale gli antichi riproducevano in terra le armonie celesti, l’ordine dell’universo, la Regola, Recht.

Vasca

Recht, la Regola, è concetto associato a Brighit, la cui radice “Br” indica l’espansione, il vasto. Brighit-Recht è, come Brihat-Ritam, il Vasto di Verità vedico, ossia l’espansione (manifestazione) secondo la regola. Ritroviamo lo stesso archetipo nell’egizia Maat, che come Brighit-Recht, racchiude i significati di «ordine», «verità», «giustizia». Nei miti cosmogonici, al caos, che contiene un ordine implicito, viene sostituita la creazione ordinata: ordo ab chao. Per dire in altri termini, parafrasando Ervin Lazlo, la molteplicità delle cose emerge dal mare di energia virtuale che va sotto il nome di vuoto quantico. Questo mare di energia (l’oceano primordiale, il Nun egizio), virtuale e sottile, è il terreno d’origine dei pacchetti d’onda che vediamo come materia, la cui radice indoeuropea M ha il significato di limite. [i]  “«Maat», termine astratto, riappare sia in copto che in babilonese e in greco. In quest’ultima lingua le radici …”ma”, “math”, “met”, entrano nella composizione di vari vocaboli contenenti l’idea della ragione e della misura”[ii]: mathema (disciplina, scienza), da cui matematica, mathesis (imparare, diciplina), metro (misura), ecc. Materia è ciò che può essere misurato. “L’idea di un ordine cosmico retto da leggi matematiche – scrive Boriz de Rachelwiltz – fu chiaramente percepita dagli antichi egiziani sin dalle più remote ere della loro storia”.[iii]  Le conoscenze degli Egizi erano note ai Greci e a Pitagora e, come vedremo ampiamente in seguito, erano condivise dai druidi. “Se riandiamo all’inizio del Papiro Rhind – scrive Boris de Rachewiltz – troveremo questa affermazione: «Il calcolo accurato: la porta d’accesso alla conoscenza di tutte le cose e gli oscuri misteri». La conoscenza della verità poggia su basi matematiche, le stesse che ritroviamo nell’ordinamento cosmico. Non vi può essere verità o giustizia in senso assoluto se non promanante da questo ordine superiore e inviolabile. Donde, l’equivalenza in egiziano dei tre termini «verità», «giustizia», «ordine»”.[iv] Gli dèi vivono di Maat, ci ricorda Boris de Rachewiltz, citando H.Frankfost, “ e ciò significa che le forze immanenti della natura agiscono in armonia con l’ordine creato ….«fare il bene» equivaleva a trovarsi in armonia con la Natura e la rottura di questa armonia, col conseguente ritorno al caos, corrispondeva al «male»”. [v]Concetti che ritroviamo nella cultura druidica e che, tornando alla vasca di Bibracte, della quale abbiamo le misure indicate da Gaspani[vi], possiamo trovare nelle geometrie ad essa applicate. Dal disegno ricavabile dalle misure di Gaspani appare evidente non solo come la vasca di Bibracte sia stata costruita con criteri rigorosamente matematici, ma come la geometria implicita, ossia nascosta, comprensibile solo agli iniziati, contenesse simboli importanti per i druidi, quali la stella a cinque punte, loro segno distintivo (come per i pitagorici). E’ interessante notare come la geometria della vasca di Bibracte sia molto simile a quella usata dagli Egizi per la vescica piscis, mandorla mistica, all’interno della quale c’è l’occhio di Ra, ossia il simbolo di Dio. La riproducibilità all’infinito della vescica piscis, sia in piccolo, sia in grande, consegna, come il pentalfa, la conoscenza di Dio all’impossibilità umana di afferrarla definitivamente. I druidi usavano una mela per insegnare le simbologie connesse con il pentalfa e con la vescica piscis. La mela, frutto della conoscenza, di questo e dell’altro mondo, infatti, “se tagliata perpendicolarmente all’asse del peduncolo, mostra un pentacolo racchiuso in un cerchio, simbolo dell’uomo realizzato che sta al centro dell’universo, la materia e lo spirito, stella a cinque punte simbolo del sapere”. [vii]Interessante anche notare come la costruzione della vasca di Bibracte ricordi quella del Fiore della vita, una forma geometrica che troviamo nel tempio di Abido, costruito da Seti I.Fiore della vita e vescica piscis, o mandorla mistica, ci conducono al cuore della geometria sacra e, in particolare, alla geometria sacra egizia e pitagorica. Va inoltre notato che la stella a cinque punte è, in Egitto, associata a Iside e a Sirio e che la vasca di Bibracte serviva anche a stabilire la levata eliaca della stella del Cane maggiore, per dare avvio, nel giusto tempo, alla festività di Lughnasad, voluta da Lugh in onore della madre adottiva Tailtiu, il cui nome, derivante da talamh, significa terra e che è la personificazione dell’Irlanda.  Sono, questi, tutti elementi che  ci conducono a due osservazioni importanti. La prima: i druidi conoscevano la geometria sacra, ossia la disciplina necessaria per accostarsi alla Regola, ovvero alla legge universale che presiede alla manifestazione. La seconda: i druidi condividevano questa conoscenza con gli Egizi e con i Greci.

[i] Vedi in proposito Ervin Lazlo, Le scienze e il campo akashico, Urra

[ii] Boris de Racheviltz, Egitto Magico Religioso, Edizioni della Terra di Mezzo

[iii] Boris de Racheviltz, Egitto Magico Religioso, Edizioni della Terra di Mezzo

[iv] Boris de Racheviltz, Egitto Magico Religioso, Edizioni della Terra di Mezzo

[v] Boris de Racheviltz, Egitto Magico Religioso, Edizioni della Terra di Mezzo

[vi]http ://www.brera.inaf.it/utenti/gaspani/vasche.htm – Ritornando al bacino, il suo asse maggiore è lungo circa 11 metri e il suo asse minore è lungo 4 metri. Tenendo conto del fatto che l’unità di misura lineare usata dai druidi per progettare il bacino valeva circa 2 metri ci accorgiamo che il bacino misura 6×2 unità. La planimetria suggerisce chiaramente che la forma ellittica era stata ottenuta intersecando due cerchi di raggio pari a 5 unità ciascuno i cui centri furono posti a 8 unità di distanza l’uno dall’altro. La cosa stupefacente è che in questo modo la metà dell’asse  maggiore della vasca viene ad essere lunga 3 unità, la distanza tra il centro della vasca e il centro di uno dei due cerchi 4 unità e il raggio di ciascuno dei due cerchi generatori vale 5 unità realizzando così il minimo triangolo rettangolo pitagorico. Infatti il triangolo rettangolo con cateti lunghi rispettivamente 3 unità e 4 unità possiede l’ipotenusa lunga esattamente 5 unità.

[vii] Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Edizioni Età dell’Acquario

A ZOGNO E CEVO IL SERPENTE DELLA PIETRA E DELL’ANELLO

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Zogno, in Val Brembana, secondo la leggenda del serpente (drago) della Corna Rossa, che i vecchi dicono di vedere ancora volare tra le cime. Il serpente usciva di notte dalla sua tana sulla Corna Rossa dopo essersi fermato a bere all’antica fonte del Boér, presso Inzogno. Si dice che i giovani del paese seguissero il serpente alla fonte, con una padella per catturarlo e rubargli la boccia d’oro, ma accadeva sempre che i giovani venissero all’istante pietrificati.

Il serpente è presente anche a Cevo (Valle Camonica), nella forma di serpente della “preda” (della pietra), visibile, secondo la tradizione, tra i boschi nella zona della Pineta. Dalla tradizione si evince che nei pressi della sorgente Antigola, una delle più antiche del luogo, dove l’acqua sgorga sempre alla stessa temperatura, girasse un serpente con un diamante (una pietra luminosa) in bocca, chiamato dalla popolazione Sèrpent dè la préda.

Va a questo proposito ricordato che tra le popolazioni  delle alpi francesi e svizzere si narra di serpenti e di draghi volanti con una pietra in fronte, che di notte volano tra le cime dei monti e di giorno si riparano in grotte naturali.

Secondo tradizioni celtiche ai serpenti volanti crescevano le ali con l’invecchiamento e si trasformavano in draghi. Alcuni draghi alati avevano corpo leonino.

Sempre riguardo a Cevo, D.A.Morandini scrive: “Una antica tradizione dice che vi esistessero, sotto la Cappella dell’Androla, delle cave di rame, chiamate ramine. La Cappella dell’Androla è forse il miglior belvedere di tutta la Valle Camonica. Esaurite ed abbandonate le cave di rame rimasero le gallerie profonde e paurose. Ebbene: quel popolo che immaginò un serpente dall’anello d’oro, a cui nessuno osò mai avvicinarsi perché annientava collo sguardo, popolò anche quelle gallerie di streghe. Queste fantastiche creature paurose, durante l’infuriare dei temporali, uscivano dai loro domini sotterranei e ballavano sotto le intemperie, sui prati dell’Androla le più strane ridde infernali”.

Notiamo, ancora, come il serpente fosse sacro alla celtica Dea Brigit, la quale verso il primo febbraio (Imbolc), come ci ricorda Marjia Gimbutas,  compare come un serpente della collina.

Il risveglio simbolico dei serpenti dall’ibernazione si verificava intorno al primo febbraio. In Scozia si credeva che un serpente emergesse dalle colline durante Imbolc, il “Giorno della Sposa”, ossia di Brighit.

Inoltre la Dea Madre, sempre secondo Marjia Gimbutas, assume l’aspetto zoomorfo di serpente o di uccello sin dal Neolitico.

Il serpente è anche associato al Dio Cernunnos, che vediamo tenere nella mano sinistra un serpente con la testa d’ariete. La caratteristica connessione del serpente con l’ariete, animale sacro alla Dea Uccello, risulta da immagini di serpenti dotati di corna o con testa di ariete, e dall’intercambiabilità delle corna di ariete con le spire di serpente.

L’immagine della Dea serpente è facilmente riconoscibile nell’arte celtica e i druidi, in Galles, chiamavano se stessi Nadredd, ossia serpenti, in quanto legati alla sapienza ancestrale.

LA SCIENZA RISCOPRE GLI SPIRITI SILVANI

Nella conoscenza delle popolazioni antiche gli alberi erano spiriti silvani, spiriti arborei, avevano coscienza di quanto accadeva loro e di quanto accadeva intorno a loro, avevano un’anima sensibile e interagivano con l’ambiente e con gli uomini in modo cosciente.

E’ un’idea, questa della coscienza degli alberi, che ritorna ora in esperimenti scientifici. Da anni si è scoperto che quando ci si avvicina ad una pianta con l’intenzione di tagliarla questa e le piante ad essa vicine rivelano, attraverso elettrodi applicati in modo opportuno, uno stato di shock. Scioccate sono anche le piante d’appartamento quando vengono traslate velocemente all’interno di una stanza nei loro vasi (collocati, ad esempio, su supporti con le ruote). Lo shock può arrivare fino a determinarne lo svenimento.

A Damanhur, una sorta di laboratorio vivente in Val Chiusella, con l’applicazione di sensori dei ricercatori sono riusciti a leggere la “voce” delle piante, ossia il variare di impulsi, tradotti in suoni, al variare della condizioni esterne: vento, pioggia, sole, presenza di persone, ecc. Recentemente alcuni studiosi hanno dimostrato che le piante emettono segnali chimici che agiscono sugli uomini come degli psicofarmaci, inducendo rilassamento, calma o, al contrario eccitazione.

Abbracciare gli alberi, dunque, non appare più come una sorta di illusione new age, ma un esperimento di rapporto con esseri viventi in grado di agire sulla psiche umana. L’antica conoscenza degli alberi e del loro spirito non era dunque senza fondamento.

In un articolo apparso sul Corriere della Sera di domenica 8 novembre 2009,  Massimo Spampani scrive che i ricercatori dell’Università del Deleware hanno scoperto che le piante sanno riconoscere le loro “sorelle” e non invadono il loro campo con le loro radici, per non sottrarre acqua e nutrimenti. Le piante comunicano tra di loro con segnali chimici e, in questo caso, con le essudazioni delle radici. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista scientifica Communicative & Integrative Biology. Già una ricercatrice canadese, Susan Dudley, della McMaster University di Hamilton, nell’Ontario, aveva osservato che una comune pianta dei litorali, la rucola di mare (Cakile edendula) può riconoscere le piante nate dai semi della stessa pianta madre. In questo caso le piante non emettono radici che possano invadere il terreno delle piante sorelle. Ora, il gruppo di ricerca dell’Università del Deleware, guidato da Harsh Bais, ha condotto una ricerca su 3000 piante di popolazioni selvatiche, la Arabidopsis thaliana, notando che quando le sorelle crescono una vicino all’altra, spesso le foglie si toccano e si intrecciano, mentre con le piante estranee questo fenomeno non si verifica.

Forse dobbiamo rassegnarci all’idea che gli spiriti silvani degli antichi non fossero molto distanti dalla realtà biologica di comportamento delle piante.

Nell’antichità, dunque, l’albero aveva un’anima: lo spirito silvano. Successivamente l’albero non sarà più il corpo di un’anima, ma semplicemente la dimora dello spirito arboreo.

“Quando un albero comincia a essere considerato non più come il corpo di uno spirito arboreo, ma semplicemente come la sua dimora, che egli può lasciare a piacere – commenta Frazer -, si è fatto allora un importante progresso nel pensiero religioso. L’animismo si trasforma in politeismo”. [1]

In effetti quello che Frazer considera un progresso è, nei fatti, un regresso da un rapporto intimo dell’uomo con la natura e con la sua saggezza, ad una  ipostasi degli spiriti silvani, che successivamente saranno antropomorfizzati, diventano degli elementali. Regresso che porterà all’idea che il mondo sia stato creato per l’uomo e sia a sua disposizione quando, al contrario, l’uomo non è il padrone della natura, ma ne è parte, al pari di tutti gli altri esseri.

L’albero, il legno, la foresta avevano grande importanza nel mondo vedico e in quello celtico. Gwydd, in gaelico, ha il significato di legno e, allo stesso tempo, di sapienza. La civiltà vedica è civiltà del legno. [2]

I druidi insegnavano nei boschi e nelle radure e il loro rapporto con la natura era intimo. Nella tradizione gallese si racconta di Gilwaethwy, uno dei figli di Dôn, il quale essendo innamorato della giovane Goevin (la vergine che permette a Math, figlio di Mathonwy, mago dei Tuatha de Danann, di vivere, mettendo i piedi nel suo grembo) con la complicità del fratello Gwyddion riesce a violarla. Math è zio di Gilwaethwy e di Gwyddion e Gwyddion lo distrae e con la scaltrezza lo allontana, consentendo al fratello la violazione. Math, maestro di magia, trasforma per punizione e temporaneamente i due fratelli in animali di sesso diverso.

Math, come spiega Margarethe Riemschneider[3], è il dio della vegetazione, riconoscibile dalla simbologia del piede nel grembo, ossia la radice nella terra. Math, dunque, maestro di magia, appartenente alla stirpe divina dei Tuatha de Danann, è il dio della vegetazione e la sua magia è la conoscenza della natura e, in particolare, della natura arborea.

Il tempio druidico era la radura del bosco. “Tra i Celti, il culto della quercia dei Druidi è familiare ad ognuno – scrive James G. Frazer – e  la loro antica parola santuario [nemeton] sembra identica nell’origine e nel significato al latino nemus, bosco o radura nel bosco, che ancora sopravvive nel nome di Nemi”[4], dove il Re-Sacerdote, il Re del bosco, custodiva il culto di Diana Nemorensis, la Diana del bosco, cacciatrice e, in quanto tale, connessa con il cervo, la Dèa “che largiva a uomini e donne la prole e assicurava alle madri un facile parto. Sembra inoltre che il fuoco avesse una parte preponderante nel suo rituale. Infatti, durante le sue feste annuali, che si tenevano il 13 agosto, nel tempo più caldo dell’anno, il suo bosco splendeva tutto di una moltitudine di fiaccole il cui rosso bagliore si rifletteva nel lago [di Nemi, detto lo specchio di Diana, n.d.r.] e per tutta quanta l’Italia quel giorno veniva celebrato in ogni domestico focolare con riti sacri”. [5]  Il sacro fuoco custodito da “sante vergini ardeva perpetuamente, in un tempio circolare dentro il recinto”.[6]

Nel mondo antico lo spirito arboreo era dotato di poteri, come tutti gli aspetti della natura, e allo spirito silvano si dedicavano riti propiziatori.

I riti, nel tempo, sono diventati feste. Alla ritualità si è sostituito il folklore.

[1] James G.Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri

[2] Morretta, Miti indiani, Longanesi

[3] Margarete Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Rusconi

[4] James G.Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri

[5] James G.Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri

[6] James G.Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri